La corriera 32

Isola della Corona, 26 marzo 1956.

Erano sotto la grande quercia che segnava il confine tra i due terreni. Il ragazzo stava in ginocchio e ansimava. Artigliò disperatamente la corteccia dell’albero, si tirò su e si appoggiò con le spalle al tronco per rimanere in piedi. L’accetta gli pendeva dal collo, la lama completamente nascosta tra le sue carni.

Boccheggiava. Nei suoi occhi c’era il terrore di chi ha appena capito che la morte sta per arrivare.

L’uomo gli stava di fronte. Afferrò con decisione il manico dell’ascia e con un colpo secco la estrasse dal collo del ragazzo. Il sangue sgorgò a fiotti e in un attimo gli arrossò il viso e i vestiti. Il ragazzo prese a sbracciare in preda al panico, ma i suoi movimenti si erano ormai fatti deboli e scomposti. L’uomo gli abbassò facilmente le braccia e strinse le sue mani attorno al collo del ragazzo. Il sangue gli scorreva lungo i polsi e dai gomiti gli sgocciolava sulle scarpe. Un altro squarcio all’altezza del petto buttava sangue come una fontanella. Poi il ragazzo si accosciò, sfinito, e l’uomo si abbassò con lui, senza mollare la presa sul collo. I loro occhi s’incontrarono un’ultima volta. Sguardi intensi, forti. Un attimo dopo Tullio Catana esalò l’ultimo respiro. Aveva vent’anni. L’uomo si alzò e osservò le sue braccia ricoperte di sangue. Un odore nauseabondo saliva dai suoi vestiti. Era in un mare di guai, eppure non riuscì a fare altro che piegarsi e vomitare le proprie viscere. Smise solo quando sentì alle sue spalle un grido bestiale, una miscela di orrore e rabbia che gli gelò la nuca come una raffica di tramontana.

– Antonietta... – riuscì a sussurrare. La donna lo ignorò e si buttò sul corpo del figlio continuando a urlare come un’invasata. Lo chiamò più volte, lo strinse a sé colorando di rosso la propria veste e il proprio viso. Solo dopo qualche istante riversò la sua rabbia sull’uomo. Si alzò e gli si avventò contro.

– Animale! – gli gridò mentre gli scaricava addosso la sua disperazione. – Assassino maledetto! Assassinooo!

Olmo Ricciòli neppure cercò di ripararsi dai colpi. Lasciò che la donna si sfogasse fino a restare senza fiato. Quando quel momento arrivò, si sedette accanto al ragazzo mentre lei esplodeva in un pianto gonfio di dolore e si torceva su se stessa strappandosi i capelli.

– Chiama i carabinieri – le disse senza trovare il coraggio di guardarla negli occhi, – io aspetto qui.

 

Isola della Corona, 4 febbraio 2007.

Il traghetto sparò un lungo colpo di sirena, poi cominciò la manovra di attracco ruotando su se stesso. Appoggiato alla ringhiera del piano più alto della nave, un uomo sui quaranta, capelli corti, fronte spaziosa e un naso che pareva un uncino, osservava sconsolato quella che sarebbe stata la sua casa per i prossimi tre anni. Una stazione minuscola, due subordinati da coordinare, milleseicento abitanti in inverno e dodicimila in estate. Osservava quel piccolo mondo grigio, tormentato da un perenne scirocco, e si domandava come avrebbe fatto a non impazzire. Quando si decise a lasciare il traghetto, i veicoli e i passeggeri erano scesi da un pezzo. Si fermò alla prima edicola.

Corse e cavalli – chiese infilando una mano in tasca per prendere i soldi.

– Arriva solo in estate – gli rispose placido l’edicolante. – Sa com’è, in inverno non lo legge nessuno...

Duro come un cazzotto in faccia. Il maresciallo Alfredo Moretti alzò gli occhi al cielo e sentì quel grigiore stringerglisi addosso come una minacciosa camicia di forza.

– Grazie lo stesso –. Agguantò le sue valigie e si diresse verso la piccola caserma. Il paese è tutto raccolto in cinquecento metri, gli aveva detto a Roma un collega che l’isola la conosceva bene, il resto è fatto di macchia e campagna. Proprio un bel posticino, pensò mentre si infilava in un bar. Aprì la porta e scoprì un posto vecchio e buio, finestre minuscole e un pavimento di fine Ottocento.

– Lei è il nuovo maresciallo – lo accolse il barista con un sorriso. Posò il bicchiere che stava asciugando e gli porse la mano.

– Piacere, Barzagli.

– Salve, Alfredo Moretti – rispose lui un po’ sorpreso.

– È l’unico che è sceso con le valigie – disse l’uomo per giustificare la sua intuizione – e di questi tempi nessuno viene sull’isola per restarci... Prende qualcosa?

– Un caffè, grazie.

– Arriva subito – rispose l’uomo posando un piattino su un pianale di marmo usurato e grigiastro come quella giornata.

Tre anni, pensò Moretti, e un brivido gelato gli attraversò la schiena. Osservò fuori della finestra. Un carro funebre percorreva lentamente la via. Dietro di esso solo un uomo sui cinquant’anni. La scena gli parve singolare e curiosa. Soltanto una persona in un posto dove praticamente tutti si conoscevano. Solo allora, voltandosi verso il bancone, si accorse dell’espressione di disprezzo stampata sulla faccia del barista.

– Il suo caffè – disse Barzagli con un tono piatto.

La porta d’entrata si aprì. Era l’uomo che seguiva il carro funebre. Si avvicinò al bancone senza salutare e chiese un J&B. Appoggiò una banconota da cinque euro sul tavolo e lo tracannò nel tempo di un respiro. Poi se ne restò a fissare il bicchiere per un po’ lasciando che il pianto scendesse silenzioso lungo le sue gote.

– Era innocente. Tu lo sai che era innocente – disse di colpo senza rivolgersi a qualcuno. Il barista non rispose ma lo fecero i suoi occhi. Le mani dietro la schiena, aveva adesso un viso duro e spigoloso, figlio di una convinzione che niente avrebbe potuto abbattere.

– Non è stato lui – continuò l’uomo, – l’ha sostenuto per tutta la vita. E io gli credo. – Si alzò e si avviò verso l’uscita. Quando fu sulla soglia si voltò e incocciò gli occhi di Alfredo Moretti.

– Un uomo innocente, maresciallo. Trent’anni di galera e tutta l’isola contro...

A quanto pare ti conoscono già tutti, pensò Moretti mentre l’uomo si chiudeva la porta alle spalle.

Posò la tazzina e fece per pagare.

– Offro io – disse Barzagli prima che il maresciallo infilasse le mani in tasca. – È il mio benvenuto sull’isola.

– Allora grazie.

– Tanto perché lo sappia – insisté l’uomo – il padre di quel tipo ha ammazzato un ragazzo a colpi di accetta. È successo cinquant’anni fa. Si è fatto trent’anni di galera, poi è tornato sull’isola come se niente fosse. Si chiamava Olmo Ricciòli. Quello era suo figlio Giuseppe: è l’unico che l’ha sempre creduto innocente. Per questo tutta l’isola lo odia e nessuno lo vuole più qui. Ma lui preferisce avere tutti contro piuttosto che andarsene. Avere tutti contro e continuare a difendere quella bestia... – Scosse la testa scandalizzato. – Vabbè, lasciamo stare. Benvenuto sull’isola, maresciallo. Tutto un altro mondo rispetto a Roma, no? Cerchi di non annoiarsi troppo. La noia è una brutta bestia...

E spesso spiana la strada alla follia, pensò lui avviandosi verso l’uscita. Riprese il cammino risalendo verso l’entroterra. Dopo un po’ intravide lo stemma della caserma. Mentre si avvicinava, gli venne da ripensare allo sguardo supplichevole di Giuseppe Ricciòli. In quegli occhi aveva visto la richiesta di aiuto più appassionata di tutta la sua vita da carabiniere.

 

– Una... sala cavalli? – gli aveva chiesto l’appuntato, incapace di nascondere il suo imbarazzo.

Moretti aveva aspettato otto giorni prima di domandare. Aveva cercato discretamente tra le pieghe dell’isola, tra le vie più anguste, tra quelle ancora sterrate dove il fango si insinuava in eterno tra le scarpe.

Prima di disperarsi davvero gli restava solo quella possibilità.

– Sì. Un posto dove si scommette sulle corse, hai presente?

– Non... non c’è. Per questo deve andare a Livorno...

– Nemmeno d’estate?

– Che io sappia no... –. L’appuntato posò sulla scrivania il rapporto giornaliero, salutò e uscì rapido dalla stanza. Un rapporto brevissimo e disperatamente identico a se stesso nei secoli dei secoli. «Nessuna segnalazione di rilievo». Moretti lo spostò in un angolo e chiuse la faccia nelle mani appoggiando i gomiti sulla scrivania. Gli venne in mente il giorno in cui suo padre gli puntava il dito addosso e lo minacciava con gli occhi spiritati. Aveva appena saputo che suo figlio voleva aprire un’officina per motori marini e aveva dato di matto.

– Tu entri nell’Arma – gli aveva ordinato con una voce strozzata dall’ira – e fai il tuo dovere fino in fondo. Fino in fondo!

Non c’è che dire: ora siamo davvero in fondo, papà. Ma evidentemente arruolarsi non era una punizione sufficiente. Ci voleva anche quella specie di confino mascherato da promozione. Si alzò e si mise a frugare tra i vecchi armadi che occupavano due pareti della stanza. Centinaia di rapporti tutti uguali. «Nessuna segnalazione di rilievo». Un’isola immobile, un posto dove il tempo si era fermato davvero.

Sfogliò rapidamente un paio di faldoni poi, spuntata dal nulla, lo assalì una curiosità per lui del tutto insolita.

– Calchetti! – gridò verso l’altra stanza.

– Comandi maresciallo – rispose l’appuntato correndogli rapidamente incontro.

– Quel vecchio che è morto l’altro giorno...

– Ricciòli.

– Ce li abbiamo ancora i verbali dell’omicidio?

– Glieli trovo subito, maresciallo.

Si avvicinò all’armadio ed estrasse uno dei tanti faldoni. Lo sfogliò rapidamente.

– Cinquantotto, cinquantasette... eccolo qua: ventisei marzo cinquantasei. Verbale di arresto di...

– Grazie Calchetti. Puoi andare.

Leggendo quelle pagine si era chiesto come un uomo potesse insistere nella propria innocenza di fronte a una situazione di flagranza come quella. Poi ripensò allo sguardo di Giuseppe Ricciòli e alla sua granitica convinzione. Era uno che aveva preferito avere contro di sé il mondo intero piuttosto che ammettere la colpa del padre. Il tarlo della curiosità se lo stava divorando. Non gli era mai successo. – Innocente – borbottò a bassa voce. – Ve l’ha detto per tutta la vita...

Lascia perdere, tu non sei un carabiniere vero. Fatti la tua vita e sconta tranquillo questi tre anni. Ma gli occhi di Ricciòli figlio non gli davano pace. E per la verità neppure quelle tre pagine. Era come se tra quelle righe ci fosse una crepa nella quale infilarsi. Beccato. Arrestato. Condannato. Che altro c’è da sapere?

– Per esempio perché uno continua a dichiararsi innocente in circostanze come queste... Per mille ragioni. Magari perché non si è neppure reso conto di quello che ha fatto.

– O magari perché è innocente davvero...

– Ha chiesto qualcosa, maresciallo? – domandò l’appuntato affacciandosi sulla soglia. Moretti scosse la testa senza alzare gli occhi da quelle pagine.

– Tu quanto ne sai di questa storia?

– Poco e niente, maresciallo. Non ero neanche nato...

– Non importa – rispose Moretti alzandosi e mettendo il cappello. – Ora andiamo ad ascoltare qualcuno che ne sa un po’ più di noi.

Il bar era diverso ma l’espressione del barista, mentre posava i due caffè sul tavolo, era tagliente e ostile come quella del Barzagli. Giuseppe Ricciòli ci era abituato e se la lasciò scivolare addosso come un’innocua pioggerellina primaverile.

– Siamo confinanti da generazioni – esordì mentre zuccherava il caffè, – l’odio tra le due famiglie è vecchio di secoli e ormai si tramanda ai figli senza neppure un perché. Tullio era il primogenito dei Catana. Suo padre era morto in guerra e lui era il capofamiglia. Era fidanzato con Rina e spesso la portava sotto la grande quercia che sta proprio al confine tra i terreni. Da là c’è una vista bellissima che si perde in mezzo al mare. Ma è anche uno dei tanti motivi della nostra rivalità: ognuno rivendica da secoli la proprietà di quell’albero e mio padre vedeva nel comportamento di Tullio una provocazione insopportabile.

– Tanto da arrivare ad ammazzarlo?

– Ma neanche per idea. L’aveva minacciato di brutto, è vero. Ma ammazzare... ammazzare è una cosa seria, maresciallo.  Mio padre abbaiava dalla mattina alla sera, ma non l’ho mai visto mordere. Era un bravo cristo, prima di entrare in galera.

– Però le prove erano tutte contro di lui.

– E infatti l’indagine si è chiusa prima ancora di aprirsi. Nessun interrogatorio, nessuna ricostruzione: ogni elemento si incastrava perfettamente. La sentenza era già scritta. A quel punto non gli restava che confessare, eppure trenta secondi prima di morire mi ha giurato ancora una volta di essere innocente...

– E lei non ha mai avuto dubbi? Nemmeno per un attimo?

– Mai. Anche se questo ha trasformato la mia vita in un calvario senza fine. Gli isolani mi odiano. Ormai hanno smesso di prendermi a sassate le finestre di casa, ma il disprezzo che provano gli si legge in faccia. Quello che davvero mi disgusta è che nessuno abbia mai dubitato della sua colpevolezza, neanche quelli che lo conoscevano da una vita. Gente che ci ha passato a fianco intere stagioni, gente che ha lavorato per lui...

Portò gli occhi sulla piazzetta adiacente al bar. Non c’era odio nel suo sguardo. Solo l’espressione ferita di un amante incompreso. Bevve il suo caffè con un gesto rapido.

– Lo sa che lei è il primo che mi domanda di quel giorno? Il primo, si rende conto?

– Il mio è un dovere professionale...

– Dovere professionale? Non scherziamo, maresciallo. Il caso è chiuso da un pezzo! Per qualunque motivo l’abbia fatto, io la ringrazio. Spero solo che non finisca qui...

– Non vedo come possa andare avanti...

– Basterebbe volerlo, maresciallo. La verità è ancora là che aspetta.

È passato mezzo secolo. Lascialo riposare in pace.

Il suo ego menefreghista, quello che insieme alla sua passione per le scommesse lo aveva di fatto spedito in quel posto dimenticato da Dio. Mai che se ne stesse in silenzio da una parte.

Corse e cavalli, prego – chiese infilando la testa nel chiosco.

– Non ce l’ho, maresciallo. Ha provato all’edicola del porto?

– Fa niente, arrivederci –. Riprese a camminare verso la caserma. – Basterebbe volerlo – borbottò – la verità è sempre là che aspetta... Non sei un giustiziere. E non sei neppure un carabiniere vero. Sei qui solo per scontare una pena. Perciò lascia perdere.

– Novità? Chiese all’appuntato che presidiava l’entrata.

– Una segnalazione. Su al Vallone. La signora Marchitelli dice che il suo vicino tiene la radio troppo alta e non la vuole abbassare...

Moretti riprese il cappello che aveva appena appoggiato sul bancone e uscì dalla caserma.

Fermati finché sei in tempo. Stai sbagliando e lo sai. – Può darsi – si rispose – ma non ci vorrà molto per scoprirlo –. Gli occhi di Giuseppe Ricciòli continuavano a fissarlo pieni di tristezza.

 

Erano i più vecchi dell’isola. Coppola fissa sulla testa, visi bruciati dal sole anche in inverno e solcati da rughe che sembravano tagli di coltello.

– Me lo ricordo eccome, il caso di Olmo – disse uno dei due mentre il barista appoggiava sul tavolo una brocca di bianco e due bicchieri.

– Secondo voi l’ha ammazzato lui? – chiese Moretti versando il vino.

– Odiare, lo odiava di sicuro. Non l’ha mai nascosto. Ammazzare... beh, io Olmo non lo facevo proprio capace. Però vai a sapere: si comincia una discussione, volano parole pesanti e va a finire che l’odio ti acceca. E poi, insomma, lo trovarono coperto di sangue... ma lei non beve, maresciallo?

– No, grazie. Io ascolto e basta.

– Forse per la Rina fu anche peggio – intervenne l’altro. – Non si è più sposata. Per un paio d’anni se ne andò a Livorno  a lavorare in una fabbrica di bottoni. Poi ritornò sull’isola, ma ogni tanto scendeva ancora a Livorno. Diceva che fabbricava i bottoni a casa e ogni due mesi li consegnava in fabbrica. Io all’epoca lavoravo sui traghetti e la incontravo sempre. Partiva la mattina presto e una volta scesa a Livorno imbarcava sulla corriera. Il 32, se non sbaglio. L’ha fatto per una decina di anni, poi quella malattia l’ha distrutta...

– Che malattia?

– Depressione. Sua mamma si è ammazzata, lei è quasi finita in manicomio. Ha tentato il suicidio un paio di volte. Ora la chiamano Rina “la matta”. Ma se ci parla si accorge che non è matta, è solo un po’... stonata. Con quello che ha avuto si può capire...

– E... ha cominciato a lavorare dopo la morte di Tullio?

– Penso fosse un modo per distrarsi. Forse voleva ricominciare lontano da qui.

– Però... però dopo un anno è tornata. Non è un po’ strano?

– Mica tanto. Noi isolani non ci stiamo bene in continente.

– Ma lei l’isola voleva dimenticarla. O no?

– Ma io che ne so, maresciallo. Alle stranezze di Rina non ci fa caso nessuno. Dopo una botta come quella, è già tanto che non sia impazzita. Anche se vicino ci è andata. Altroché...

 

Avresti perso. Ancora una volta. Stava controllando sui giornali il piazzamento dei suoi favoriti. Trecento euro risparmiati. Un carro di veleno risparmiato. Risparmiata anche l’ennesima figuraccia con la banca. Provò un senso di leggerezza e di serenità come non gli succedeva da tempo. Sta’ a vedere che quel fetente di capitano aveva ragione. Sta’ a vedere che questo sputo di paese ti disintossica davvero...

Poi i pensieri, di nuovo agili e vivaci,  gli si spostarono sul vecchio Olmo. Tutto quel rancore della famiglia di Rina, ancora intenso e potente dopo dieci anni.

Gli sembrava impossibile che quella rabbia fosse durata così tanto. A meno che... – Calchetti!

– Comandi, maresciallo.

– Domattina vai a Livorno. Vai all’azienda che gestisce il trasporto pubblico. Voglio conoscere il percorso che faceva la corriera numero 32 nel periodo dal ’56 al ’66. Ti fai dare le vie, le fermate, il percorso completo.

– E se quei percorsi non sono registrati?

– Allora scovi qualche vecchio pensionato dell’Atl e ci vai a parlare. Inventati quello che ti pare, basta che mi porti quel percorso. Una volta che ce l’hai, te lo devi fare a piedi.

– A... piedi?

– Ti annoti tutte le attività economiche che stanno in quelle vie. Banche, avvocati, dentisti, assicurazioni. Per ogni attività, via e numero. Chiaro?

– Chiaro, maresciallo. Lei non viene con me?

– No, Calchetti. Vai da solo.

– Così prenderebbe l’occasione per la sala cavalli, no? Ce n’è proprio una vicino al...

– Ho da fare qua. Non posso venire.

– Non è tutto ’sto gran da fare. Le segnalazioni le ha viste anche lei...

– Non vengo. Portami quelle informazioni e lasciami qui.

– Come vuole, maresciallo. Però quello che cerca lei è a Livorno...

È proprio per questo che non vengo, pensò Moretti. Pensò anche che quell’isola gli stava entrando nelle ossa. E gli effetti di quell’abbraccio sembravano proprio piacevoli.

 

Quattordici vie, un centinaio di attività, quasi tutte recenti. Niente che lo ispirasse particolarmente. Eppure qualcosa gli gridava di insistere.

Scaverai all’infinito senza trovare niente. Solo per quello sguardo...

– Non è per quello sguardo. Ti sei forse deciso a giocare al carabiniere? Adesso hai anche una bella caserma da comandare...

– Ti dico che non è per quello sguardo. Sono passati cinquanta anni!

– Giusto. Ecco dove ho sbagliato.

Alzò il telefono e chiamò il settore urbanistica del comune di Livorno.

– Le attività degli anni Sessanta non sono inserite nell’archivio informatico – gli spiegò il funzionario, – però abbiamo conservato il cartaceo. Potete consultarlo quando volete.

– Sta bene. Domani le mando uno dei miei.

– Ancora laggiù? – chiese l’appuntato Calchetti.

– Ormai dobbiamo andare fino in fondo. È troppo importante.

– Non sto mica discutendo un ordine, maresciallo. Dico solo che lei potrebbe approfittarne per scendere in città.

Moretti si fermò a riflettere. Non buttava soldi nelle scommesse da ventiquattro giorni e cominciava a sentirsi piuttosto bene. Stava recuperando un equilibrio interiore e una forza di volontà che pensava perduti per sempre.

– No, Calchetti. Ci vai da solo.

E poi era l’ora di parlare con una persona.

 

La casa di Rina Fortuni era calda e asciutta anche in una giornata piovosa come quella. Stava proprio accanto al panificio e i muri del corridoio, costellati di vecchie fotografie, erano al tatto caldi come pani appena sfornati.

La donna aveva i capelli bianchi raccolti in una crocchia fermata con due vecchi spilli di legno e un paio di occhiali che le ingigantivano gli occhi.

– Quello – disse indicandolo con un dito, – quello è Tullio.

Un lampo di rabbia le attraversò il viso mentre osservava la foto e si abbandonava ai ricordi.

– Cos’ha fatto dopo la sua morte?

– Niente di particolare. La mia vita è andata in pezzi.

– È andata a lavorare a Livorno, giusto?

– Sì – rispose lei abbassando la testa, – volevo lasciare questo posto.

– E poi?

– E poi sono tornata. Mia mamma si è uccisa, qualche anno dopo un infarto si è portato via mio babbo. E ora eccomi qui.

Continuava a torturarsi le mani. Nonostante l’oscurità del corridoio Moretti scorse diverse ferite sul dorso e sui palmi. Quella era una rabbia furibonda. Una rabbia che covava ancora, rovente come il primo giorno.

– Adesso la lascio – disse sfoderando un sorriso di circostanza, – mi scusi se l’ho costretta a rivangare certi ricordi...

– Per quello non ha da preoccuparsi. Quei ricordi mi accompagnano tutti i giorni. Mi sembra addirittura di esserci nata.

 

Aspettava sul lungomare, seduto su una bitta libera. Appena vide Calchetti spuntare dalla passerella, si alzò e gli andò incontro.

– Allora?

– Ho portato via l’intero archivio, maresciallo. C’era da scrivere troppo...

– Meglio così. Lasciami tutto e torna in caserma. Hai fatto un buon lavoro, Calchetti. Quando sarà il momento, ti spiegherò a cosa mi serve. Se mi cercate, sono dal Barzagli.

Si fece portare un caffè e allargò sul tavolo l’enorme libro rilegato. Nomi, vie, attività, sigle, date. C’era da perdersi. Per cercare cosa, poi? – Fammelo trovare e poi te lo dico...

Passò al setaccio un rigo dietro l’altro. Senza mettersi fretta, pienamente calato nei ritmi e nei tempi dell’isola, esaminò con attenzione febbrile ogni foglio. Tornò indietro, prese appunti, fece confronti. Ordinò un altro caffè e ricominciò daccapo. E infine trovò ciò che cercava.

 

Rina Fortuni infilò nel vaso il mazzo di fiori freschi, poi si sedette sulla tomba e lucidò rabbiosamente la foto di Tullio Catana che le sorrideva dalla lapide. Sospirò con forza e gli restituì uno sguardo rancoroso e tagliente. Quando si accorse della presenza di qualcun altro, il maresciallo Moretti si era già seduto sull’altro lato.

– Ancora lei – mormorò la donna.

– Ancora io.

– Proprio in questo momento, maresciallo? Quando sono qui, io...

– Proprio qui volevo incontrarla. Per vedere se anche qui avrà il coraggio di mentirmi.

Rina Fortuni cambiò di colpo espressione. Il suo sguardo si fece spaurito e timoroso. Nessuno le aveva mai parlato così di quel giorno. Perché qualcosa dal fondo del cuore le gridava che il maresciallo Moretti si stava riferendo a quel giorno.

– Sono stato a Livorno. In via dei Timonieri.

La donna buttò lo sguardo lontano dagli occhi di Moretti, ma le sue mani non riuscirono a nascondersi altrettanto bene. Presero a torturarsi senza sosta.

– Oggi in quei palazzi c’è una banca, ma fino agli anni Ottanta c’era un istituto infantile... –. Tacque per qualche istante ma la risposta che aspettava non arrivò. La incalzò un po’.

– È là che andava, giusto? C’è andata finché non l’hanno adottato...

Rina abbassò la testa e si abbandonò al pianto. I ricordi salivano a galla, vividi come non le era mai accaduto.

Moretti attese che stavolta fosse lei a riempire il silenzio.

– Non potevo crescerlo da sola – disse lei tra i singhiozzi, – oggi lo fanno tutti, ma a quei tempi sarebbe stato impossibile. E poi mio padre... lei neppure se lo immagina, mio padre.

Questo lo crede lei, pensò Moretti.

– Mi disse di scegliere: o la famiglia o il bimbo. E io ero sola come un cane... come potevo scegliere lui?

– Così l’ha messo in istituto.

Rina annuì riluttante: – L’avrebbero cresciuto loro. Ogni tanto scendevo a Livorno e portavo i soldi per pagare le rette. Finché all’età di nove anni se lo sono portato via. E allora è davvero finito tutto...

– E Tullio? Tullio che ne pensava?

La donna scosse la testa e chiuse gli occhi: – Basta, la prego. Basta...

– Rina: non sono qui per suo figlio. Sono qui per Tullio.

La donna si asciugò le gote con i polsi del cappotto. Annuì un paio di volte. Ormai i ricordi erano saliti tutti, chiari e cristallini come il primo giorno. Tanto valeva condividerli finalmente con qualcuno.

 

Tullio si infila una spiga tra i denti, poi si sdraia e si lascia accarezzare dal sole. Rina si sdraia accanto a lui. – Amore...

Tullio si volta verso di lei. Le accarezza il viso e sorride. – Cosa c’è?

– Io... io penso di essere incinta.

Tullio si alza di scatto come se qualcosa lo avesse morso.

– Gesù santo! Ma... sei sicura?

– Quasi. Ho un ritardo di venti giorni. Ho la nausea. E poi non mi...

– Porca puttana! –, grida lui. Mena fendenti all’aria, si strappa i capelli. – Maledizione! Questo no!

Rina lo guarda stupita. Si aspettava una reazione di gioia, una promessa di matrimonio, un’esplosione di felicità. Il mondo le crolla addosso e tutto si colora di nero.

– Io non lo voglio – sentenzia lui, – è troppo presto. Ho solo venti anni, perdio.

– Ma lui è... è nostro figlio! Se Dio ce l’ha dato è perché...

– Ah, sì? E chi lo manterrà? Dio? Devo mettere a posto i terreni, devo ancora costruire un paio di stanze. Porca puttana! Niente da fare. Non lo voglio.

Rina si è alzata. Ha smesso di ascoltare perché ogni parola è una lama rovente sulla pelle.

La voce di Tullio diventa una sorta di fastidioso sottofondo che le oscura ogni capacità di ragionamento. Pensa a suo padre, un uomo all’antica che le farà sputare sangue, pensa all’isola, alle voci maligne, ai sussurri quando la vedranno camminare con quel pancione senza un uomo al fianco. Le immagini si ammucchiano nel suo cervello e il cuore le ribolle di ira violenta. L’accetta pende dal tronco della quercia come un invito irrinunciabile. Tanto tempo prima il vecchio Olmo l’ha piantata lì a perenne monito, per ricordare ai Catana che quel pezzo di terra è suo. Prima ancora che Rina possa fermarsi a riflettere è già stretta attorno alla sua mano. Sul viso di Tullio c’è un’espressione di disprezzo che fa traboccare la furia della ragazza. Un colpo secco al cuore: Tullio traballa e dal suo petto il sangue prende a zampillare copioso. Nei suoi occhi non c’è stupore, solo un odio animalesco.

– Maledetta – sibila. Si avventa sulla ragazza, ma ha già cominciato a morire e l’ira di lei non si è ancora spenta. La lama si pianta di nuovo, stavolta nel suo collo, e resta lì mentre Rina si allontana dai campi in tutta fretta. Tullio si piega in ginocchio ad aspettare la prematura fine della sua vita. Ma il destino non ha ancora finito di scherzare con lui. Mentre strappa alla morte gli ultimi sorsi d’aria, una sagoma si avvicina verso la vetta del poggio. La sagoma del vecchio Olmo, l’uomo che più lo odia al mondo.

– Olmo avrà provato a salvarlo in qualche modo. Ecco perché era zuppo di sangue. E ora capisco anche la sua rabbia, Rina. Lei è ancora infuriata con se stessa. Perché è lei che ha mandato tutto a puttane, giusto?

La donna mantenne la testa bassa senza rispondere.

– Ora lo sa cosa succede, vero?

– Sì. Ma non mi importa. Non mi importa più di niente.

Moretti si alzò e si avviò lentamente verso l’uscita del cimitero. I singhiozzi di Rina si fecero più forti e straziati, ma lui non si era mai sentito così bene. Adesso si sentiva parte di quell’isola, un ingranaggio in perfetta sintonia con tutti gli altri. Immaginò la gioia di Giuseppe Ricciòli e ne fu contagiato.

Sta’ a vedere che quel fetente di capitano aveva davvero ragione, pensò di nuovo. Passò di fronte all’edicola. Rallentò solo un istante, poi tirò dritto verso la caserma. La sua caserma.