Il libro: Ombre sul Rex. Un'indagine Sestrese (Fratelli Frilli Editori 2008). Siamo a Genova alla fine del luglio 1931. È imminente il varo del transatlantico Rex, orgoglio e vanto del fascismo, quando gli apparati di sicurezza del regime sono allertati per il rischio di un attentato alla famiglia reale, presente alla cerimonia del varo che avverrà ai cantieri navali di Sestri Ponente, dove si sta finendo di allestire l'enorme nave. La minaccia sembra venga da lontano... Chi è il misterioso americano che si aggira come un fantasma per la città? Quali segreti nasconde? Per il vice commissario Menchini inizia una disperata caccia all'uomo, destinata a cambiare per sempre la sua vita.

L'autore, Daniele Cambiaso, è nato a Lavagna (GE) nel 1969 e vive a Genova. Insegnante di materie letterarie, si occupa di letteratura mystery su riviste e siti specializzati. Ha curato appendici storiche per alcuni romanzi di Leonardo Gori e Ben Pastor. Suoi racconti sono apparsi sulle antologie Crimini etruschi e Colpi di testa. Il racconto "Una vicenda delicata", scritto a quattro mani con Ettore Maggi, è apparso sull'antologia Carabinieri in giallo, "Il Giallo Mondadori" N. 2958, 31-07-2008. Ha curato, insieme ad Angelo Marenzana, l'antologia di racconti noir Crimini di regime (Laurum 2008).

Il romanzo comincia e finisce con un flash foward, cioè con uno sguardo all'immediato futuro, quello del 4 agosto 1931, pochi giorni dopo la conclusione della misteriosa vicenda che dà luogo alla corsa contro il tempo intrapresa dal vice commissario Igino Menchini, il vero protagonista. Conclusione emblematica: dentro Palazzo Venezia il poliziotto incontra il Duce... Ce ne parli tu?

Come hai colto giustamente tu, l’incipit del romanzo è un flash forward, una fuga in avanti. L’incontro del vice commissario Igino Menchini della polizia politica col Duce non è che la conclusione, infatti, di una vicenda che nasce come un’indagine di routine e finisce col terremotare non solo la vita stessa dell’investigatore, ma anche i piani alti del fascismo. Cronologicamente, la vicenda si apre nei giorni che precedono il varo del transatlantico Rex nei cantieri Ansaldo di Sestri Ponente. La morte apparentemente accidentale di un informatore mette il vice commissario Menchini sulle tracce di un complotto che dovrebbe trovare il suo momento culminante proprio durante il varo della nave, quando sarà presente la famiglia reale e alcune tra le massime autorità fasciste. È una pista labile, che ruota attorno all’inquietante e misteriosa figura di un anarchico toscano emigrato ormai da anni negli Stati Uniti e rientrato clandestinamente in Italia. Quest’uomo si muove come uno spettro per la Genova che si sta preparando a festa, lascia tracce che portano ad altri misteri irrisolti, ma soprattutto gode di strane e insospettabili protezioni. Col procedere dell’inchiesta, Menchini si troverà coinvolto in situazioni drammatiche, ma, soprattutto, verrà a conoscenza di segreti inconfessabili che lo trasformeranno da cacciatore in preda. Il resto lo lascio alla curiosità del lettore…

Nel romanzo storico usare questo procedimento (e ancora di più il flash back) non è certo una novità. Ma qui, in Ombre sul Rex, il metodo risulta particolarmente efficace. Forse perché tra verità nascoste o parzialmente svelate e finzioni comode al regime, il poliziotto riconquista una libertà interiore da usare per il suo futuro; e che si guarda bene di rivelare a chicchessia, a cominciare da Mussolini? È così?

Il percorso di Menchini in effetti non è solo un’inchiesta tambureggiante, condotta sul filo del rasoio, ma è anche un vero e proprio percorso di conoscenza e, se vogliamo, di auto coscienza. Menchini, mentre toglie i veli che nascondono i segreti dai quali è circondato e celano il volto oscuro del Potere che serve, si interroga sul proprio ruolo, sulla propria dimensione etica di poliziotto.

C’è una scena che mi sembra significativa in relazione a questa sua maturazione interiore: ad un certo punto, gli viene ordinato dai superiori di mettere preventivamente guardina un anziano tipografo che anni prima era stato coinvolto marginalmente in attività contrarie al regime e che tira avanti come può, nonostante le continue vessazioni e i controlli. Pur eseguendo l’ordine con la solita ruvida efficienza, Menchini, a dispetto del ruolo, appare in crisi, titubante, mentre l’anziano antifascista, pur dovendo subire un sopruso, appare il più forte, il più determinato, in un ribaltamento totale delle prospettive psicologiche. E’ in quel momento che si aprono le prime crepe nelle granitiche certezze di Menchini. Mi interessava molto il discorso biografico e psicologico di questo poliziotto, perché la narrativa ha la possibilità di scandagliare e fotografare appunto la mentalità, la psicologia, i percorsi biografici di questi “ingranaggi” dell’apparato repressivo fascista, portando in primo piano ciò che la saggistica, tesa ad analizzare l’insieme e a contestualizzarlo, fatalmente è costretta a relegare sullo sfondo, vale a dire l’individuo. Per l’autore, la sfida da vincere, difficilissima, è quella di liberarsi di tutte le proprie sovrastrutture culturali per creare un personaggio che ragioni, che “senta” proprio come doveva sentire un uomo del suo tempo. Spero di esserci riuscito.

Dal suo varo il Rex divenne un evento di risonanza mondiale (basterebbe ricordare il suo attracco trionfale nel porto di New York). Ed autentico mito popolare (così lo ricorda, in un magico episodio, Fellini in Amarcord: gli abitanti e i villeggianti di Rimini che, di notte, si spingono in barca al largo, per vedere il passaggio dell'enorme scafo illuminato di mille luci)…

Il Rex è stato una vera e propria icona del regime, è indubbio. Ma è stato soprattutto un vanto della nostra cantieristica e della nostra Marina. Insieme al suo gemello, il Conte di Savoia, ne rappresentò la punta di diamante, dimostrando di quali realizzazioni fosse capace l’industria italiana. Fu anche una colossale operazione di immagine del regime, alla pari delle traversate atlantiche o dei record aerei di velocità, in quanto si testimoniava la modernizzazione del Paese sotto l’egida fascista. Si voleva far capire che gli italiani, grazie al fascismo, non erano più un popolo di emigranti, ma si muovevano da padroni nei cieli e sugli oceani, ridicolizzando le distanze. Ora, è innegabile che un certo impulso fu dato al processo di industrializzazione italiana, ma a quale prezzo? C’è progresso reale, laddove vengano meno le libertà politiche e si eserciti un rigido controllo sociale come avveniva nell’Italia fascista? Non solo, ma va considerato il fatto che la costruzione del transatlantico servì anche a tamponare la crisi dei cantieri italiani, ancora invischiati nelle conseguenze del tracollo del ’29.

Il varo del Rex fu straordinario: si utilizzarono tecnologie innovative e si arrivò a modificare l’assetto dei cantieri per poter ospitare una mole tanto imponente. Questo transatlantico avrebbe dovuto aprire la strada a nuove commesse, anche dall’estero, con la speranza che gli armatori italiani invertissero la tendenza a comprare fuori dall’Italia, per le loro flotte, vecchie carrette alle soglie della radiazione. Questo aspetto è magari poco conosciuto, ma negli articoli dei giornali dell’epoca questo problema traspare con una certa insistenza, segno che non era tutto oro quello che si faceva luccicare. Al di là di tutto ciò, è un fatto che il Rex fosse nato per impressionare e meravigliare. Era lungo fuori tutto 268,2 metri, largo 31 m, con una stazza lorda di 51.061 tonnellate, prora a bulbo, poppa a specchio, apparato motore con turbina e 4 eliche per 136.000 CV ed una velocità di servizio di 27 nodi; aveva 12 ponti di cui 5 continui e portava 2.032 passeggeri: sono cifre che impressionano ancora oggi e che, in quel periodo, che vide il massimo splendore dei transatlantici, erano da capogiro. L’arredamento era lussuoso, di gran classe, le cabine di prima classe disponevano tutte del telefono, c’erano piscine, palestre, saune, sale massaggi, cinematografi, persino una piccola ma elegante cappella. Insomma, il comfort era assicurato. E poi, c’era il fascino della grande impresa, il Nastro Azzurro, conquistato dal comandante Tarabotto nell’agosto del 1933. Un’impresa eccezionale, condotta temerariamente in condizioni climatiche avverse (mare agitato, nebbia) e coronata dal pieno successo, mantenendo una media di 29,61 nodi. La leggenda del Rex inizia qui e dura ancora adesso, a tanti anni dalla sua malinconica fine. La seconda guerra mondiale lo vide infatti trasformato in nave ospedale e poi assurdamente bombardato nel 1944 al largo di Capodistria. Dopo la guerra fu smantellato e depredato dagli jugoslavi, che desideravano riutilizzare l’acciaio pregiato del suo scafo. Si salvò solo la scritta, oggi conservata nel Museo navale di Spalato. Quando è stata portata a Genova per l’inaugurazione del Museo del Mare, l’ho vista e mi sono commosso, pensando ai racconti di mio nonno che ne era stato uno dei progettisti…

E così c'è stato anche qualcuno della tua famiglia che, in qualche modo, è entrato nella progettazione del mito del Rex. Ci vuoi raccontare qualcosa?

Forse, la vicenda familiare alla quale facevo cenno prima è stata la ragione più intima, personale, per la quale ho scritto il romanzo. In effetti, mio nonno fece parte dell’Ufficio Tracciati che si occupò del progetto del transatlantico. I suoi racconti ai miei occhi di bambino avevano il valore magico di una favola e possono davvero essere considerati il motore iniziale del mio racconto, oltre ad essere stati una fonte orale di prima mano. Posso dire che in essi si avvertiva l’orgoglio per aver contribuito ad una realizzazione senza precedenti, al di là del fatto che fosse o meno un’opera del regime, e proprio da lì si può dire che sia nato il mio amore e il mio interesse per questa nave straordinaria.

Nel romanzo storico (e, in particolare, nel giallo storico), il rapporto tra il vero (accertato da documenti) e il verosimile è da sempre conflittuale, almeno per gli storici di professione. Questa affermazione ti sembra vera? E se sì, come vivi questo conflitto?

Non essendo uno storico di professione, forse non sono la persona più adatta per rispondere a questa interessante domanda. Peraltro, come storico dilettante, mi sono trovato spesso a verificare quanto sia difficile accettare certe “licenze” degli autori. Tutto sta a vedere quanto le variazioni siano funzionali a una trama e, soprattutto, quanto siano consapevoli. Si può arrivare al caso in cui le discontinuità rappresentano il vero motore della trama, e allora il divertimento è assicurato, basti pensare alle ucronie di Dick, di Harris o al recente romanzo di Brizzi, “L’inattesa piega degli eventi”. A volte, però, ci sono inesattezze – e non parlo di dettagli, a volte sono topiche davvero clamorose - frutto di scarsa conoscenza o di sciatteria, e devo dire che questo mi dà un po’ fastidio. Credo che, volendo maneggiare il thriller storico, si debba fare uno sforzo di documentazione che sia il più possibile rigoroso. Un maestro come Jeffery Deaver ha raccontato di aver dedicato più tempo alla ricerca e alla documentazione che non alla scrittura vera e propria, quando ha creato Il giardino delle belve, che tra l’altro è un esempio straordinario di thriller storico. Mi sembra un insegnamento da considerare con attenzione.

Cosa bolle nella tua "pentola creativa" per il prossimo futuro?"

A novembre dovrebbe uscire un racconto ambientato durante la Guerra Civile spagnola. Si intitolerà “La morte di un uomo”, e sarà inserito nell’antologia La tierra de los caìdos, curata da Angelo Marenzana ed edita da Robin. Poi, mi sto dedicando a una storia ambientata negli anni Settanta, un altro momento storico intenso, lacerante, dibattuto. A questo proposito, vista la buona riuscita della rubrica curata con Marenzana su Thrillermagazine, che ha portato alla nascita dell’antologia Crimini di regime, partiremo sempre a novembre con una nuova rubrica, “Libri gialli, anni di piombo”. Il progetto si propone le medesime finalità del precedente: creare uno spazio narrativo e di riflessione con racconti, articoli, recensioni, ecc. a tema. E chissà che non si riesca a creare un altro volume collettaneo. Ah, dimenticavo… Prima o poi Igino Menchini potrebbe saltare fuori nuovamente!