Fisso la porta di fronte a me, colore del piombo, uguale a tutte le altre. Messe in fila, una accanto all’altra, come quadri ordinati, esposti da un artista con poca fantasia. L'agente al mio fianco ha già le chiavi in mano. Sta per aprire la gabbia. I catenacci scorrono tutti insieme in un concerto ormai quotidiano. Una specie di terremoto scuote il cervello di tutti quelli che sono fermi, in piedi, di fronte alla porta colore del piombo pronta ad assorbire parte di quel tempo che li separa dalla loro morte. Ogni volta qualcuno scarica tensione, grida una battuta, poi ride forte e in modo sguaiato, e si aspetta che si mettano a ridere anche gli altri. Qualche volta succede. Qualche altra volta no. Di solito in questo momento vince la tristezza, e una sorta di panico che paralizza il respiro anche dei criminali più duri. Nulla serve a sconfiggere la sensazione di essere risucchiati in quell’antro. Né violenza. Tantomeno l’astuzia. Non c’è nulla. Se ne esce sempre sconfitti. Vince sempre il peso di vuoto e silenzio che crolla sulle spalle e nel cuore ogni volta che il piede varca la soglia.

Quello del superare la soglia è un movimento che dura un istante. Ma sembra far parte di una sorta di allucinazione. La stanza si dilata o si restringe. L’aria è plumbea. Il vuoto ti soffoca. Ma non è possibile niente di diverso.

Entro. E' sufficiente un passo per trovarmi in quella scatola. Non provo neanche più il senso di angoscia dei primi giorni, quando non potevo credere che quella, proprio quella, era la mia nuova realtà. Una realtà che cambia tutto e che toglie tutto. Come se il Padreterno mi avesse piantato la vanga sotto i piedi ed il mio mondo conosciuto venisse risucchiato da un momento all’altro in quella buca, sprofondando nel nero più cupo della terra.

Un letto d'angolo, un tavolino quadrato con un cassetto che contiene poche cose concesse dal regolamento. Sulla destra un divisorio sottile come un velo nasconde un lavello e un water senz'asse. Quando mi siedo sopra devo tenere il rotolo di carta stretto tra le caviglie, e le ginocchia urtano il pannello.

In totale sono tre metri per due, poco più di sei metri quadri.

E' tutto lo spazio che mi resta a disposizione quando la porta si chiude alle mie spalle con il suo rimbombo sordo.

E’ finita l'ora d'aria e il destino delle prossime ventidue ore è quello di starmene disteso sul letto. Altro non mi posso concedere. Non riesco a dormire, nemmeno a leggere. Niente. Se non pensare. In maniera ossessiva. Fino quasi a vedere i miei pensieri. Toccarli con la punta delle dita mentre escono fuori dalla testa per appoggiarsi sul muro, tra i contorni delle crepe, delle macchie di sporco.

Sono anch’io dentro il muro, in mezzo alle immagini della mia testa. Dentro i ricordi.

Sono nella toeletta della Discoteca Tortuga, e anche lì tante porte, tutte uguali, tutte chiuse, e io lo sapevo che dovevo tacere, che non dovevo farmi prendere dalla voglia di pisciare, dovevo aspettare il mio turno e basta. Avevo voglia di litigare, perché ne ero certo che dentro quei cessi chiusi dalle porte bianche non c’era gente che stava pisciando, c’erano i soliti tossici, quelli che tiravano su di naso, e i più furbi che si chiudevano dentro con una ragazzina conosciuta mezz’ora prima per farsi fare un pompino. Ma a me scappava da pisciare e non volevo farmi prendere per il culo, così ho aperto la prima porta che mi è capitata sottomano e dentro c’era quel cazzone seduto sulla tazza con una spada in vena. Cristo… La testa pendeva sulla sinistra, le gambe larghe e la schiena sembrava incastrata tra sciacquone e water. Ho fatto un passo dentro e sono rimasto a guardarlo. Una goccia di sangue gli scorreva sul braccio e a me il sangue fa impressione, la spada penzoloni pure lei come la testa.

Mi rendo subito conto che quel coglione è morto. Morto da coglione.

Resto un momento di troppo. Una ragazzina alle mie spalle grida. Mi volto. Sono quattro. Gridano anche le altre tre. Sento l’agitazione di tutte. Subito è confusione. Escono anche gli altri dai cessi occupati, io resto in piedi e tutti sembrano fissare me prima di accorgersi di quello morto. La toeletta diventa una specie di cassa di risonanza degli urli di tutti quanti. Pochi istanti. Arrivano anche due tipi della sicurezza, due armadi neri vestiti di grigio. Anche loro guardano me. Forse pensano che l’ho ammazzato io. Si fanno largo tra gli altri. Uno parla al telefonino, l’altro mi viene vicino e mi prende per un braccio quasi temesse di vedermi fuggire.