Protagonista della mini retrospettiva di quest’anno al FEFF 10, Shin Sang–ok è stato un regista dalla carriera multiforme e travagliata, nonché vittima nei tardi anni ’70 di un rapimento da parte degli emissari del dittatore Kim Jong–li, intenzionato a far rinascere il cinema nordcoreano grazie al talento di uno dei maestri della Corea del Sud. Dei cinque film presentati al festival, tutti girati alla fine degli anni ’50 e tutti in qualche modo incentrati su forti ritratti femminili, A College Woman’s Confession (1958) s’impone per atmosfere chiaroscurali e una palese denuncia delle ingiustizie patite dalle donne nella società coreana dell’epoca.

Studentessa in legge di umili origini, la bella Choi So–young (Choi Eun–hee, magnetica moglie del regista e grande diva dell’epoca) torna nella capitale Seoul per riprendere gli studi dopo la morte della nonna. L’università però è molto costosa, e la ragazza pensa di trovare un lavoro per riuscire a pagare l’affitto e la retta. Ma una realtà ostile si affaccia subito con prepotenza nella vita di So–young: dopo aver rifiutato le proposte indecenti del proprietario della casa in affitto, la ragazza si ritrova improvvisamente senza un tetto e oggetto delle attenzioni indesiderate dei passanti. L’ombra della prostituzione sembra sommergerla da un momento all’altro, e So–young comincia a meditare il suicidio. A un certo punto, però, un’idea riaffiora alla mente della ragazza: perché non tentare la sorte con la proposta fattale tempo addietro dall’amica Hee–sook (Kim Sook–il), aspirante scrittrice? Hee–sook le aveva parlato del diario di una donna che era stata l’amore di gioventù di un noto politico della città, Choi Rim (Kim Seung–ho). La donna, morta da tempo, aveva avuto una figlia da lui, ma l’uomo non ha mai saputo se la bambina fosse ancora viva e dove si trovasse. Nel diario, l’autrice afferma chiaramente di aver perso la bambina, ma perché non strappare quelle poche pagine del diario e andare da Choi Rim, fingendosi sua figlia? In fondo, sarebbe l’unico modo per So–young di proseguire gli studi con dignità, protetta dall’amore autentico e disinteressato di un padre. Travolta da pensieri di morte ma decisa a diventare un brillante avvocato e riscattare così la propria vita di donna che la società vorrebbe destinata al fallimento o alla rinuncia, So–young decide di andare dal politico e di fingersi sua figlia. Il trucco funziona, e benché la ragazza sia sempre più rosa dal rimorso, il futuro le riserva una solida carriera che, ironia della sorte, ha inizio dalla difesa della giovane studentessa Sun–hee (Hwang Jeong–soon) la cui storia somiglia molto a quella di So–young, o meglio a quel che la storia di So–young sarebbe stata se avesse preso il verso sbagliato, senza l’aiuto di Choi Rim. In un’arringa che è insieme difesa delle donne oppresse e analisi del proprio gesto, sentito come leggittimo anche se ingiusto, So–young riesce a convincere la giuria, anche se a caro prezzo. Che la scelta della sua prima causa legale sia stata determinata dal destino, piuttosto che dalla casualità, o forse la sua nuova madre (Yu Gye–seon) ha intuito la verità, e sta architettando il modo giusto per smascherarla?

Intrecciando due storie di donne, entrambe vittime della povertà e costrette ad azioni illegali dalle circostanze, Shin ruota tutto sulla tensione fra realtà e menzogna, vita effettiva e vita parallela, in un crescendo di emozioni che trovano la loro perfetta rappresentazione nel volto di Choi Eun–hee, divina maschera della volontà, determinata a cancellare un passato ostile che riemerge nelle persone che le sono di fronte e nelle loro emozioni. La vicenda narrata dal regista assurge a denuncia della condizione di inferiorità in cui la donna versa nella società coreana dell’epoca, che la costringe in ogni caso alla sudditanza nei confronti di un uomo. Se è vero che So–young riesce a riscattarsi, infatti, ciò può avvenire soltanto grazie all’aiuto economico del “padre”; chi, come la studentessa, non ha ricevuto un’occasione analoga dalla vita, sembra destinata unicamente al crimine. Attraverso la sua arringa, So–young (e con lei il regista) tenta di scavalcare lo stato di minoranza che le donne devono subire, e il suo volto insieme pieno di dolore e risoluto diventa l’emblema di una lotta possibile, e necessaria.