Eccezionalmente ci occupiamo di un romanzo francese per segnalare la terribile “trappola”; non quella del titolo, bensì quella che l’autore ha fatto scattare nell’incauto compratore: un’autentica “sòla”, per dirla in gergo romanesco.

Il trentacinquenne Arnaud Delalande infatti, sceneggiatore e scrittore con all’attivo una dozzina di romanzi (e, ahimè, con il progetto di dare un seguito parigino a questo La trappola di Dante), amante dell’Italia, come proclama in tutte le sue intervista reperibili sul web, ci prova a rifilarci il “pacco”.

Ingrediente numero uno: ambientazione geografica piena di appeal anche in vista di una riduzione cinematografica e televisiva; e cosa c’è di meglio di Venezia che neppure la grandeur dei nostri cugini riuscirà mai a scalfire, non possedendo nulla di simile in patria?

Ingrediente numero due: ambientazione storica accurata (sì, c’è qualche svarione qua e là, ma d’altra parte le fonti citate in bibliografia dall’autore non sono poi il massimo…) nel XVIII secolo, in piena decadenza della nobile Repubblica, avendo l’accortezza di introdurre due scrittori italiani, conosciuti nel mondo, che interpretano loro stessi: Carlo Goldoni e Giacomo Casanova (le cui memorie, a detta di qualche lettrice indispettita sul web, sono state un po’ troppo saccheggiate).

Ingrediente numero tre: un protagonista da feuilleton, Pietro Luigi Viravolta di Lansalt (sic!), una simpatica canaglia, mezzo moschettiere del re, mezzo dongiovanni, detto Orchidea Nera (arisic!) nel giro dei Servizi Segreti ai quali dedica gran parte del suo tempo; il nostro eroe provvederà, con le sue doti superiori di amante, spadaccino, pistolero, cavaliere e acrobata nonché violinista a tempo perso, a sventare un tremendo complotto ordito ai danni del governo legittimo di Venezia. Ah, dimenticavamo: ha un fedele servitore, tale Landretto, che rappresenta, nelle sue scorribande, il suo necessario alter ego.

Ingrediente numero quattro: un’affascinante fanciulla, Anna Santamaria, tristemente sposata a un vecchio senatore della Repubblica, per la quale cui il nostro Pietro è finito ai Piombi e che nel finale costituirà il premio per la sua missione segreta; temiamo assai, dalle anticipazioni, che i due semineranno parecchio languore nelle lettrici visto che si ritroveranno in Francia nel prossimo romanzo.

Ingrediente numero cinque: l’arma segreta, l’arma di distruzione di massa che Delalande utilizza contro i suoi colleghi concorrenti. Dopo le farneticazioni pseudostoriche di Dan Brown ormai il lettore accetta di tutto e così è stato un fiorire di noir in cui vengono coinvolti, direttamente e non, scrittori come Machiavelli, scienziati come Galilei, musicisti come Vivaldi, pittori come Leonardo; ma ultimamente va molto il nostro Dante. Il Delalande utilizza quindi l’Inferno dantesco per scandire i terribili delitti di una setta demoniaca che mira in sostanza a un colpo di stato reazionario e nazionalista che restituisca Venezia ai fasti di un tempo contro l’inarrestabile decadenza e l’incipiente ventata democratica.

Avremmo potuto sopportare di tutto: d’altra parte i romanzi storici e, più ancora, i noir storici ci hanno abituato alle peggiori nefandezze sotto l’impeccabile velo di un’accuratissima documentazione. D’altra parte anche l’ultimo Follett – che peraltro non abbiamo letto – non è stato accusato perlomeno di disinvoltura nel ricostruire il Medioevo inglese? Assolta dunque la tendenza del nostro Delalande a operare qua e là un furioso “copia e incolla” da guide turistiche, ricostruzioni d’epoca e, come denunciato, dalle memorie di Casanova; metabolizzata l’onomastica dei protagonisti che hanno nomi che all’orecchio italiano risultano altamente improbabili (Viravolta?); sopportate le notazioni di colore con nebbia, acqua alta, Canal Grande, Rialto e altre piacevolezze tipicamente veneziane; tollerato persino il finale dove dobbiamo sorbirci alcune scene di massa con un bombardamento in laguna con tanto di gondole, Bucintoro, galee che escono dall’Arsenale: neppure nell’ultimo 007 cinematografico avevano osato tanto.

Ma Dante, no! Adesso che è diventato, suo malgrado, un autore cult, degno di passaggi televisivi e intrighi letterari, occorrerebbe un numero verde per denunciare gli abusi. Le citazioni dall’Inferno, che dovrebbero segnalare l’impressionante sequenza di omicidi di questa setta satanica (dimenticavamo che questi golpisti si travestono da demoni e citano il Sommo Poeta a tutto andare), vengono utilizzate, per usare un eufemismo, a capocchia: i passaggi sono forzati, le colpe inutilmente modernizzate (l’eresia religiosa condannata in Dante diviene eresia, cioè dissenso, politica nel senatore Campioni), o metaforizzate (il maestro vetraio Federico Spadetti viene punito per la sua avidità di denaro che quindi non si configura come peccato di gola, ma di avarizia); le pene addirittura inventate (nel Limbo le anime sopportano solamente la pena spirituale della lontananza da Dio e qui l’attore Marcello Torretone viene crocifisso!) e via violentando.

Che fare dinanzi a tanto scempio?

Nulla, assolutamente nulla. Solamente segnalare il romanzo per un eventuale rogo purificatore.

Quello che poteva essere un passabile polpettone noir-storico si è trasformato per la superbia (visto che siamo in territorio dantesco) dell’autore in una trappola infernale (è il caso di dirlo) per il lettore benintenzionato, perlomeno di lingua italiana: una “sòla” insomma.

Pertanto, pollice verso.

E se proteggiamo gli uccelli, i panda e la foca monaca dallo sterminio, almeno abbiamo pietà del nostro maggior poeta.

Voto: 1