Jimmy Ciabadeiros 

Quella sera Jimmy Ciabadeiros, la rock star più famosa della Valdera, si coricò più ansioso che mai. L'indomani lo aspettava un importantissimo concerto all'Auditorium Flog di Firenze e tutti i suoi fan sarebbero stati presenti; migliaia di persone pronte ad applaudire i virtuosismi dell'eclettico chitarrista dai biondi e lunghi capelli.

Era mezzanotte passata, Jimmy Ciabadeiros non riusciva a prender sonno. Il suo corpo era teso, rigido e la sua mente rapita da uno scintillio d'immagini e suoni. Jimmy Ciabadeiros si vedeva già sul palco.

Inutile restare a letto. Jimmy Ciabadeiros si alzò e tirò fuori la chitarra dalla fodera. Una fender stratocaster bianca e nera, la sua fender. Si afferrò i capelli e se li legò dietro, lo faceva sempre prima di suonare, era il suo rituale. Iniziò dunque a strimpellare, sciogliendo a poco a poco le lunghe, affusolate dita sulla tastiera.

Il contatto con la chitarra lo rilassò. Erano passati soltanto pochi minuti e Jimmy Ciabadeiros appariva più disteso, finalmente sereno. Rinfoderò lentamente la fender e tornò a letto. Socchiuse appena gli occhi ed un placido sonno discese su di lui.

Jimmy Ciabadeiros dormiva profondamente, ignaro del domani. Sognò a lungo, o meglio, ebbe un incubo stranissimo.

Ciabadeiros sognò di trovarsi legato e imbavagliato su una poltrona da barbiere, in una stanza semibuia, illuminata appena da una fioca, lugubre candela. Davanti a lui, una sinistra figura in calzamaglia nera, incappucciata da capo a piedi, sogghignava in modo diabolico e teneva in una mano un rasoio e nell'altra un paio di forbici, che apriva e chiudeva ripetutamente, al ritmo dei suoi spaventevoli sogghigni.

Ad un certo punto, l'individuo vestito di nero iniziò a danzargli intorno, muovendosi silenzioso sulle punte dei piedi e punzecchiandogli i capelli con brevi, secche, veloci rasoiate. Poi, terminata la macabra danza, l'altra mano, quella che impugnava le forbici, gli si abbatté impietosa sulla testa, spennacchiandolo tutto.

Fu un incubo davvero orribile. Ciabadeiros ci teneva tantissimo ai suoi capelli. Il tempo che egli impiegava per rimettersi a nuovo era all'incirca di un'ora e mezzo: mezz'ora per fare la doccia e per vestirsi, un'ora per fonarsi, pettinarsi e sistemarsi a dovere i capelli.

Jimmy Ciabadeiros aveva dei capelli stupendi, che tutti gli invidiavano: grossi, folti, lunghi, robusti, di un biondo luminoso che quasi ti accecava. Jimmy l'elvetico, Ciabadeiros il nordico, questi alcuni degli appellativi con i quali era conosciuto negli ambienti musicali.

"C'ha i capelli come le donne" era il commento delle centinaia di fan che lo seguivano ad ogni concerto; e Ciabadeiros le ripagava fluttuando la chioma al vento nei suoi interminabili assoli.

Prima di iniziare ogni concerto, se li legava sempre dietro; ma non perché gli piaceva portarli a coda di cavallo, bensì perché non vedeva il momento di lanciarli a briglia sciolta nell'aria, contaminandola di quel furore rockettaro che pulsava nelle sue vene trasgressive.

Jimmy Ciabadeiros si svegliò di colpo, ansante e tremante, madido di sudore in tutto il corpo. Non appena si rese conto che era stato solo un brutto incubo, un lampo di felicità lo investì, ma fu un breve attimo, un infinitesimo di secondo, appena il tempo di portarsi le mani al viso e sentire un agghiacciante vuoto sulla sua testa. Immediatamente, un senso di paralisi gli attanagliò le membra, tutte.

Chissà se nelle più remote e inconsce zone del cervello di Ciabadeiros balenò un istinto suicida, un impulso di annientamento, il pensiero di sparire per sempre dalla faccia della terra.

Jimmy Ciabadeiros giaceva nel suo letto, annichililo sotto le coperte. In camera c'era solo lui, ma era come se il mondo intero lo stesse guardando, con occhi ora attoniti, ora irridenti.

Jimmy Ciabadeiros non aveva il coraggio di guardarsi allo specchio. Alla fine si alzò dal letto e lentamente si diresse verso il fatidico specchio. La realtà che gli si rivelò fu atroce: una testolina timida e impaurita, rassomigliante a quella di un pulcino appena nato. Non più una chioma radiosa e splendente, ma una mesta pelata scorticata in modo crudele. Dell'antico elmo con cimiero da rock star, restava soltanto qualche rado e sbiadito ciuffettino biondo. Ma quel che più raccapricciò il povero Jimmy Ciabadeiros fu l'enigmatica, inquietante scritta che aveva scolpita in fronte:

Pelik

La porta del sottoscala si aprì lenta e stridula, la luce di una torcia fece strada, mentre la traballante scala di legno scricchiolò sotto i passi di una strana figura vestita di nero, misteriosa e sinistra.

Si udì un clic ed una fioca luce rischiarò i mattoni delle volte di quel freddo, umido scantinato.

La nera figura si avvicinò ad una libreria ricolma di cianfrusaglie. Con una mano afferrò una bottiglia e ne sospinse il collo verso destra. La libreria ruotò appena su se stessa, aprendo un varco nella parete. La nera figura entrò in quel cunicolo segreto, la parete si richiuse immediatamente. Era solo, solo e padrone del mondo, niente e nessuno poteva disturbarlo. Stava assaporando il silenzio della notte, la solitudine delle tenebre più fitte, quando quei rumori tornarono improvvisamente ad assalirlo, a percuotere la sua mente con violenza, con la cadenza ossessiva di sempre. Fitte laceranti, scariche elettriche contro le quali egli tentava invano di difendersi; le mani strette alle tempie, un tremito convulso e attanagliante, a seguire un fragore, un immane boato che gli rintronava nella testa spappolandogli il cervello in una pioggia di schioppettanti meteoriti, in una miriade di frammenti atomici che gli bombardavano impazziti la massa cranica. E poi un odore nauseante, denso, un odore sottile e strisciante, una massa gelatinosa che si insinuava nelle sue narici e si addentrava come un viscido, velenoso rettile nei meandri remoti della sua mente, squarciandogli come una luce accecante le più oscure tenebre dell'inconscio.

Prigioniero del mostro, nel disperato tentativo di cacciarlo dalla mente, ecco le unghia delle sue mani aggrapparsi alla rosea pelata e artigliarla violentemente. A seguire un grido, un urlo agghiacciante, lacerante: il verme, il rettile ancestrale, il terribile mostro si era dileguato e con esso stava svanendo anche quel nauseante, stomachevole odore.

Non più grida d'angoscia, ma gemiti sempre più fiochi. Le mani, intorpidite, tremanti, gelide, si staccavano lentamente dalle tempie madide di sudore. Di nuovo il silenzio ed il respiro profondo dell'uomo in calzamaglia nera, un respiro ansante che gli usciva dai polmoni come il mostro che aveva dentro gli usciva da chissà quali profondità dell'anima. Un mostro impazzito che nessuno poteva fermare, un mostro malato che nessuno poteva guarire, un mostro il cui nome risuonava inquietante ed atterriva chiunque lo pronunciasse; un mostro di nome Pelik.

Pelik depositò la borsa con la refurtiva sopra un tavolo, poi si tolse la calzamaglia. Si guardò allo specchio, osservò attentamente quella sua testa completamente calva, liscia, rosea, lucente. Una calvizie che si perdeva nella notte dei tempi, una notte buia e tenebrosa.

Pelik aprì la borsa e tirò fuori una matassa di biondi capelli. Vi infilò le mani ed iniziò ad impastarli. Erano soffici, spessi. I capelli sembravano lievitare nelle mani di Pelik. Poi, ciuffo dopo ciuffo, se li portò alla testa ed iniziò a frizionarsela, avvicinandosi allo specchio. Continuò per un po' a strofinarsi i capelli sulla testa; nel suo volto si leggeva un vivido orgasmo. Ma di colpo un malefico sorriso tagliò la sua faccia e spezzò l'incanto. La mente di Pelik tornò a ritroso indietro nel tempo, a quella notte buia e tenebrosa, quella notte che nessuno conosceva e che ora riaffiorava improvvisa. Nei suoi occhi non c'era più la follia e la rabbia di qualche attimo prima; no, il suo sguardo era lucido, freddo, tagliente. Pelik si osservava nello specchio e scrutava quell'essere adorno della bionda criniera; un essere a lui quasi estraneo.

Ma ecco improvviso l'accenno ad un nuovo raptus: "Perché? Perché? Perchéééééé?" gridò l'uomo in calzamaglia nera, continuando a guardarsi nello specchio e portandosi le mani alle tempie.

Rimase così per qualche minuto, immobile, in attesa di sentire quei rumori, di respirare ancora quell'odore, di sentirsi nuovamente pervaso dal verme. Ma non accadde niente. Pelik inspirò allora profondamente, una, due, tre volte, e si lisciò ancora i capelli, roteando lentamente la testa e disseminando nell'aria i suoi agghiaccianti sogghigni. Sentiva quell'atmosfera decisamente sua. Ora, Pelik si compiaceva di sé. Restò ancora qualche attimo prigioniero del suo narcisismo, poi si tolse lo scalpo, si ripulì per bene la testa dai capelli residui e si avvicinò ad una vecchia cassettiera.

La cassettiera rappresentava un vero e proprio campionario di capelli, suddiviso in tanti scomparti quanti erano gli scalpi conquistati da Pelik. Vi erano capigliature color castano, nero e fulvo, lisce, ricce e mosse, insomma, una variegatissima gamma di parrucche dettagliatamente catalogate e suddivise con la massima cura.

Pelik vi ripose anche il suo ultimo cimelio, dopodiché lasciò il rifugio, quando l'alba ormai si approssimava.

Da PELIK. Storia di un serial cutter. Prefazione di Massimo Carlotto. Autoprodotto, pp.  62, maggio 2002. Il volumetto contiene anche “L'incredibile storia del Dottor Spadanzoni e di Esè l'Ubriacone”.

Guido Genovesi, nato a Cascina (PI), studi all'Università di Pisa (laurea in filosofia), fa parte della band musicale di Pontedera Gli sboccati. Si diletta a scrivere storie umoristiche ispirate a episodi della vita quotidiana. Si definisce simpatico, iconoclasta, artista.

Oltre che alcuni volumi rigorosamente autoprodotti (tra cui Pelik), ha pubblicato con Felici Editore il romanzo Chissà cosa succede a Gaborone.