Zodiac (pron. zòdiac) di David Fincher, un cambio di rotta deciso rispetto a quanto fatto fin qua. Panic Room, per fare un esempio, faceva del virtuosismo, magari un po’ fine a se stesso, una delle chiavi di volta del film stesso (ma i titoli di testa incastonati tra le mura newyorkesi rimarranno…), con la cinepresa che senza sosta perlustrava in lungo e largo l’edificio dove la coppia madre-figlia resisteva eroicamente all’incursione esterna. Stavolta Fincher preferisce applicarsi, anziché alla metafora (su un mondo sempre più ripiegato su se stesso, sempre più alla ricerca di una panic-room nella quale rifugiarsi…) alla ricostruzione di un’indagine reale ma che nonostante gli sforzi profusi non riuscirà ad assicurare il colpevole alla giustizia. L’indagine è quella da parte di coloro che invano diedero la caccia ad un sanguinario serial killer soprannominatosi come Zodiac (nome, pare assodato, proveniente da una marca di orologi così come il logo stesso col quale firmava le lettere che inviava ai giornali, una sorta di croce celtica con i bracci della croce che oltrepassano i punti di incrocio con le circonferenze), autore di numerosi delitti nella zona di San Francisco nel periodo compreso tra la fine degli anni ‘60 e quella dei ’70. A sentire le dichiarazioni dello stesso Fincher in quel di Cannes (dove Zodiac è in concorso), il perno della storia starebbe più che nell’identità rimasta sconosciuta del serial killer, nelle personalità di coloro che gli diedero la caccia per i quali la caccia stessa finì col diventare una vera e propria ossessione. Non furono pochi ad indagare e non furono soltanto poliziotti. Tra questi ultimi va ricordato Dave Toschi (interpretato da Mark Ruffalo), mentre tra i primi il vignettista Robert Graysmith (Jake Gyllenhaal), e Paul Avery (Robert Downey Jr.) cronista di nera, entrambi del San Francisco Chronicle, uno dei giornali prescelti da Zodiac per l’invio delle sue deliranti missive. Forse per le diverse personalità di ognuno e per la diversa appartenenza a mondi per niente affini, Fincher (ma forse sarebbe meglio dire la sceneggiatura), sceglie di seguire volta per volta l’approccio di ognuno: quello da classico poliziotto di Toschi (per alcuni al vero Toschi si ispirarono sia Steve McQueen per il ruolo di Bullit nell’omonimo film di Peter Yates che Clint Eastwood nel celebre Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo, anch’esso ispirato alla vicenda di Zodiac…), quello da giornalista abituato a non andare troppo per il sottile quando si tratta di ottenere una notizia di Avery, infine quello logico-matematico-intuitivo di Garysmith (convinto alla fine di essere riuscito ad individuare la vera identità di Zodiac anche se gli indizi raccolti furono sempre ritenuti non sufficienti per un arresto, e autore dei due libri dai quali è stata tratta la sceneggiatura). Sarà allora per questo, per via dell’incolmabile distanza che di fatto persisteva tra i tre, che nello sposare ogni volta in volta il punto di vista di ciascuno (riservando solo alla fine l’abbozzo di una complicità tra Garysmith e Toschi), Zodiac finisce col riservare pochissime sorprese, costruito com’è per blocchi che faticano non poco a stare assieme, offrendo a più riprese la spiacevole sensazione di essere solo e soltanto un pura e semplice sommatoria di eventi senza mai riuscire a diventare qualcosa di più della loro semplice somma (appunto...). Si assiste così senza particolari scosse a lunghe scene dialogate (ha visto giusto chi lo ha paragonato ad una sorta di Tutti gli uomini del Presidente in chiave thriller…) non facilissime da seguire vista anche la rapidità con la quale si incrociano nomi e fatti. L’annunciata e tanto decantata scena con il timido Jake Gyllenhaal che accettato l’invito di un perfetto sconosciuto forse in grado di rivelargli qualche informazione sul misterioso Zodiac e che una volta trovatosi in casa dell’uomo inizia a temere di essere capitato nella tana del mostro, è di quelle che forse funzionano sulla carta, ma che sullo schermo hanno la durata mnemonica di una palla di neve all’Inferno.