Mio nonno era un uomo solido e schietto. Calato giovanotto dal Galluzzo si impiegò a Firenze come cameriere e dopo anni di tenace gavetta si mise in proprio aprendo un ristorante. Il locale, per quel che potevano permettere i miseri tempi, prosperava e in esso prestavano la loro opera anche la nonna e mio padre bambino.

Poi venne la guerra e tutto divenne difficile. La carne era razionata e si doveva andare a ricercarla per le campagne. Nel locale di mio nonno talvolta si serviva l'insalata con forchetta, coltello e molto pane perché sotto l'innocente verdura si nascondevano proibite braciole e duri tranci di carne equina. Si tirava avanti, insomma, e i nonni non si potevano lamentare. Mio padre dodicenne andava a scuola, serviva ai tavoli e capiva la vita attraverso l'umanità rude dei cuochi e il sincero spettacolo che la gente offre di sé nel momento in cui si nutre e in quello in cui dà la mancia.

Era una bella giornata luminosa quando il primo soldato americano giunse ad affacciarsi dal Piazzale Michelangelo. Pensò forse "beautiful" di fronte al panorama rosseggiante di tetti che si stendeva sotto di lui ma più probabilmente in quel momento aveva tutti altri pensieri per la testa. La città infatti era piena di tedeschi e presto risuonarono i primi spari. La cosa non durò poi molto. I germanici si ritirarono sulla riva settentrionale dell'Arno abbandonando agli alleati parte dell'abitato. Questi si accontentarono di quanto era stato loro concesso e si accamparono. Forse allora qualcuno dei loro ebbe modo di pensare "beautiful". Nel frattempo, sulla zona di Firenze occupata dalla Wehrmacht gravava il coprifuoco. Fu proclamato lo stato d'assedio e tutti i negozi, compresi ristoranti, dovettero chiudere. La gente rimaneva serrata in casa, cacciava i gatti e aspettava.

Anche i miei erano a casa quando i tedeschi li vennero a prendere e li condussero al ristorante. Li accolse un ufficiale basso e baffuto che si presentò come il vice comandante della guarnigione, o, almeno, così ai miei nonni parve di capire. L'uomo parlò in un italiano discreto, era stato rappresentante di vernici a Milano per alcuni anni prima della guerra, e spiegò che non ne potevano proprio più del loro rancio e che si preparasse dunque per tutti graduati una bella cena così che almeno per una sera ai loro stomaci fosse risparmiata la razione militare. Mio nonno lo comprese perfettamente: aveva visto ciò che mangiavano i tedeschi. Era quello un esercito braccato che tirava avanti nutrendosi di patate e di un certo lardo acido che a tre metri di distanza non si riusciva a sopportarne l'odore. Loro lo mangiavano quasi con voluttà e ogni tanto capitava che un soldato generoso ne porgesse un po' a un civile italiano, con un'aria di grande condiscendenza quasi offrisse cibo raro e prelibato riservato a pochi. E l'italiano se proprio moriva di fame accettava l'omaggio, se no faceva smorfie di disgusto e i tedeschi ridevano, alzavano le spalle e si rimettevano a masticare beati. Tutt'altra cosa erano invece le razioni degli americani e quando mio padre ce lo racconta ancora gli brillano gli occhi al ricordo di quelle sospiratissime tavolette di cioccolata e alle zuppe liofilizzate che in un minuto erano già pronte. Vinsero la guerra per quello, conclude sempre, perché mangiavano meglio, e forse non ha tutti i torti.

Il nonno e la nonna andarono in dispensa a vedere se era rimasto qualcosa di commestibile da dare ai tedeschi. C'era del riso e dei peperoni, poi nient'altro. Il nonno continuò le sue ricerche. Aprì un cassetto e fu avvolto da un odore di marcio e macerato. Nella fretta del coprifuoco un cuoco, al momento di chiudere il negozio, aveva infilato nel cassetto un bel pezzo di carne. A quell'epoca, infatti, di frigoriferi non se ne parlava ancora e al massimo i cibi si conservavano nella ghiacciaia in mezzo, appunto, alle schegge di ghiaccio che ogni giorno venivano ricomprate dagli appositi venditori. Questi strani ambulanti andavano per le strade con biciclette o carretti e sempre con delle pinze per maneggiare la loro gelida mercanzia e una grande sega per tagliarne la quantità richiesta dalle massaie.

Erano personaggi molto simpatici, quei venditori, e amati dai ragazzini perché regalavano le schegge rimaste dopo la suddivisione delle lastre ghiacciate e i bambini con quelle briciole ci facevano le granite. 

Il pezzo di carne puzzava tremendo. Era rimasto chiuso per una settimana nel cassetto in pieno agosto. Comunque era un pezzo di carne e questa sua virtù in quei momenti di carestia vinceva qualunque altro suo difetto. Mio nonno disse "speriamo bene" e iniziò a preparare la cena.

Quella sera gli ufficiali della Wehrmacht mangiarono riso e carne molto saporita, sommersa e mimetizzata sotto in un'accesa peperonata. Il cibo costoso e il vino abbondante rallegrarono alquanto i tedeschi che concluso il desinare si complimentarono molto con i miei e vollero a tutti costi pagare il conto. Poi li riaccompagnarono a casa. 

Il giorno dopo, proprio mentre la nonna raccontava ridendo a mio padre del pezzo di carne ammuffita rifilata ai germanici, qualcuno bussò alla porta. Il nonno aprì e gli si gelò il cuore. Erano due S.S. che  con modi bruschi gli dissero di seguirli insieme a sua moglie fino al ristorante. I nonni si prepararono. Mio padre li voleva accompagnare ma la nonna, che aveva un brutto presentimento, gli ordinò di restarsene chiuso in casa. Poi andarono.

Li accolse ancora una volta l’ufficiale tedesco. Aveva un'aria triste. Condusse i miei nella sala dove i graduati avevano cenato. Parlò con quel suo italiano strano.

"Ricordate; qui sedeva il colonnello..." e disse un nome tedesco, "qui sedevo io, qui..." e continuò a indicare tutti quelli che erano stati presenti la sera prima.

Infine giunse all'ultima sedia.

"Qui, ricordate, sedeva quel tenente biondo. Quello alto, che parlava forte e che ha preso doppie porzioni di ogni cosa.

Lo ricordate, vero? È morto stamattina."

Il nonno e la nonna restarono senza fiato. Voltarono leggermente la testa e si guardarono l'un l'altra disperati. Pensarono alla carne ferocemente andata male e a quel tenente. Lo ricordavano benissimo: alto, magro, un po' pallido. Aveva bevuto tanto vino, si era quasi addormentato sulla tavola.

Passò qualche secondo. Il nonno taceva terrorizzato, e anche il tedesco taceva, con uno sguardo duro.

Infine la nonna non sopportò più tutto quel silenzio e azzardò con un filo di voce:

"Come è morto? "

"Sul Ponte Vecchio, stamani. Una mina," rispose triste l’ufficiale.

La nonna tirò fuori un "poverino" che sembrava tanto un sospiro di sollievo.

Poi il tedesco ordinò di preparare un'altra cena.

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