Leggere Gomorra è come levare di mezzo il filtro espressivo della letteratura e guardare il mondo, quel mondo nero che è materia da romanzo, senza nessuna protezione.

Le situazioni, i personaggi, lo stile, sono gli stessi della narrativa noir, ugualmente familiari a lettori e scrittori. Solo che qui sono presentati senza mediazioni, senza la struttura della finzione, che serve a sospendere il giudizio e l’incredulità al fine di calarsi nell’ambientazione e nel racconto.

L’impressione che si ha è di essere davanti a una realtà che imita il romanzo e finge di essere romanzo, ribaltando così lo schema abituale, caro al cosiddetto pragmatismo, che vuole una finzione che imiti la realtà.

Il percorso è invertito, rispetto a quello della narrazione romanzesca. Non si procede dalla finzione verso la realtà, o la “realisticità”, del narrato, bensì dalla veridicità al racconto, dai fatti alla struttura invece che dalla struttura narrativa ai fatti.

Non c’è storia o spunto che deve farsi romanzo sembrando realtà, ma la realtà stessa che viene organizzata in romanzo, o comunque in un tutto organico e coerente che trascenda la frammentarietà dell’episodio.

Gomorra fa saltare lo schermo protettivo della finzione mettendoci di fronte alla materia romanzesca privata dell’aura protettiva fornitale dall’essere racconto fantastico e d’intrattenimento. E con la scomparsa del filtro finzionale, cala vertiginosamente la soglia di sopportazione del lettore.

Ciò che, raccontato in un romanzo, era storia o aneddoto affascinante, adesso, nel romanzo tramutato in verità che è Gomorra, diventa cronaca o episodio di una violenza che non può più essere liquidata come “invenzione letteraria” e considerata come funzione narrativa.

È come essere costretti a tornare sul luogo del delitto, di tutti quei delitti che come scrittori o lettori abbiamo consumato o creato servendo i fini della narrativa di genere e della costruzione letteraria, e che adesso siamo costretti a guardare nella loro paralizzante concretezza di eventi reali.

È qualcosa che genera vergogna, questa visita guidata all’inferno che noi credevamo romanzesco e fittizio, e invece scopriamo essere vero come la vita delle migliaia (per non dire milioni) di persone che ci sono dentro.

Per chi scrive e per chi legge, questi ambienti, questi fatti, queste parole, sono indubbiamente famigliari. Sono personaggi che abbiamo imparato a conoscere leggendo romanzi noir; sono situazioni che abbiamo visto, codificate, in decine di film; sono frasi che abbiamo letto e sentito centinaia di volte, ma ora ci ritroviamo davanti a tutto questo privati della protezione del racconto, dell’invenzione, della fantasia.

L’effetto di svelamento e rivelazione che ha Gomorra sta qui: in questo mostrarci un mondo da noi conosciuto nella fantasia, dicendoci però che fantasia non è, perché è tutto vero. Credevamo di leggere un’altra pagina di romanzo, e invece è una pagina di cronaca.

Il noir, genere che più di ogni altro cerca il contatto con il reale e soprattutto con l’ineluttabile tautologia delle cose e dei fatti, resta fuori dal discorso di Gomorra. Rimane letteratura e finzione che non può avere niente da spartire con la verità effettiva della storia raccontata. E questo sguardo senza protezioni sulla verità dietro l’invenzione che è Gomorra ci restituisce la vertigine di ciò che, mostruosamente e banalmente, accade.