Eccoci di nuovo alle prese con lo svedese Håkan Nesser, uno dei più famosi scrittori scandinavi di noir, che ha deciso però di ambientare i suoi romanzi in un’immaginaria cittadina, Maardam, dai connotati (dall’onomastica alla toponomastica) decisamente olandesi.

Carambole è il libro che ha consacrato l’autore in patria, che ha vinto un prestigioso premio letterario, il Glasnyckeln, e che – è il caso di dirlo? – è stato tradotto in Italia né come primo (come forse avrebbe suggerito il suo successo) né come settimo (è il posto che occupa nella serie dedicata al commissario Van Veeteren).

È un romanzo che spiazza continuamente il lettore, a cominciare dalla prima di copertina dove compare diligentemente il sottotitolo italiano Una nuova indagine del commissario Van Veeteren.

Nulla di più falso. Il commissario è in pensione e l’inchiesta viene svolta prevalentemente dall’intera sua squadra (a eccezione dell’ex collega e compagno di badminton, Münster, ancora convalescente per una ferita riportata in un precedente caso): Reinhart, che ha preso il suo posto, Jung, deBries, Rooth, Ewa Moreno. VV (come lo chiamavano in servizio) o il commissario (per antonomasia, come lo definiscono ora che è in pensione) dà qualche dritta, che risulta fondamentale, ma sostanzialmente rimane ai margini dell’azione.

Il fatto è che, seconda novità per il lettore, stavolta uno degli assassinati è il figlio di VV, Erich, già apparso di sfuggita nei romanzi precedenti alle prese con problemi di tossicodipendenza: ma non è quest’ultima la causa della sua morte, bensì l’eccessiva fiducia di un suo antico educatore. E VV, non certo l’ultima felice contraddizione del romanzo, recupera il rapporto col figlio proprio dopo che è morto, grazie anche a Marlene, la nuora appena conosciuta, che lo sta per rendere nonno.

Ogni volta quindi che il lettore crede di imboccare un sentiero sicuro (l’inconscio desiderio in definitiva di un eterno ritorno dell’identico che spinge ogni appassionato di gialli) si accorge di aver sbagliato e deve tornare indietro.

A questo punto infatti anche qualcuno di voi potrebbe pensare che tutto sia stato predisposto dall’autore per somministrarci un giustiziere in salsa scandinava che vuole vendicare l’uccisione del figlio: niente di tutto questo. VV segue da lontano le indagini, non si sovrappone ai suoi uomini, vuole solo vedere in faccia alla fine il responsabile degli omicidi e solo allora, molto umanamente, si congratula con se stesso per non avere con sé una pistola, che avrebbe usato, e augura gelidamente all’assassino una rapida morte.

Il quale, tanto per non smentire l’originale struttura del romanzo, è il vero protagonista – e non del tutto negativo – di un intreccio che ha non troppi lontani ascendenti nella tragedia greca benché Nesser, nel corso della narrazione, preferisca, più modernamente, utilizzare la metafora del biliardo (da cui il titolo).

Una persona perbene, normale, borghese, grigia diremmo, per una serie di coincidenze puramente casuali (l’incontro una sera coi suoi colleghi, qualche bicchierino in più, un giovane che nelle brume autunnali cammina lungo il ciglio della strada), investe un ragazzo che, di nuovo casualmente, muore non nell’impatto diretto, ma perché batte la testa sul canale di cemento che funge da scolo lungo la carreggiata.

Da qui un susseguirsi di “carambole” in cui caso e necessità si scambiano vorticosamente la parte senza che gli attori (l’assassino, le vittime, ma anche i poliziotti) possano far molto per mutare il corso delle cose. Alla responsabilità dei singoli rimane solo la scelta se dire sì o no a quanto già avvenuto, non la possibilità di indirizzare il corso degli eventi dominati, appunto, dal Caso nell’assordante silenzio di un qualunque Dio.

Esaminare gli snodi fondamentali del romanzo in cui a ogni mossa del caso risponde la limitata capacità di scelta dell’individuo ci condurrebbe a privare il lettore del piacere della lettura. Possiamo quindi limitarci a dire che questo è senz’altro il più “filosofico” dei noir di Nesser e quindi il più angosciante e, d’altra parte, il più acutamente rivelatore delle angosce di una società – quella scandinava – da tempo pesantemente secolarizzata e priva di una qualsivoglia speranza trascendente.

Un’angosciosa – ma controllata – discesa agli inferi con ritorno (quasi) garantito: cosa chiedere di più a un noir?

 

Voto: 8