Una storia veramente torbida, tra multinazionali farmaceutiche, colossi editoriali e montagne di interessi sospesi tra Londra e Gerusalemme. Nel mezzo un doppio Otello (la protagonista è una regista), quello di Shakespeare e quello di Verdi, con personaggi che sono come tanti Iago moltiplicati da un gioco di specchi. Iago, simbolo e agente epidemico di una malvagità che potremmo definire atavica, se non genetica.

Parte lenta, Gaia Servadio, la narrazione decolla a poco a poco per poi schiantarsi, letteralmente, nel finale. La sua scrittura è concentrata, diretta e le poche divagazioni che si concede non fanno che aumentare l'atmosfera d'abbandono alla vita, all'amore e alla morte che aleggia tra le pagine.

E i morti non sanno del noir ha quasi tutto: la malinconia, la nebbia, la pioggia, la tragicità, lo schianto esistenziale, il senso della morte incombente. Il romanzo possiede però una spiritualità che di solito il genere "nero" non ha: un barlume di speranza, forse, che solo un'entità superiore può dare, un qualcosa che sia oltre l'uomo.

Perchè l'essere umano è - per definizione e sua natura - senza speranza.