Quattro rapinatori danno l’assalto a un mezzo che trasporta un’ingente quantità di denaro. Durante la fuga uno dei banditi viene ucciso dalla polizia. I tre superstiti braccati dalla polizia per aprirsi una via di fuga prima prendono in ostaggio una donna, Maria, poi Riccardo, un uomo che alla guida di un’auto sta portando il figlioletto febbricitante in ospedale.

Con i due ostaggi a bordo i banditi iniziano una lunga fuga…

Mai distribuito per via del fallimento del produttore Loyola e riapparso nel ’95 con il titolo di Semaforo Rosso, Cani arrabbiati oltre a essere uno dei film più belli e al tempo stesso più amari di Mario Bava, per più di qualche verso il suo canto del cigno (dopo girerà soltanto Shock e La Venere d’Ille, essendo La casa dell’esorcismo la versione rimontata di Lisa e il diavolo, film quest’ultimo del ’72), è anche l’ideale prosecuzione di Reazione a catena, con Bava impegnato in una nuova ricognizione dell’animo umano dalla quale, sarà gioco facile accorgersene, non riporterà indietro nulla di buono ma soltanto amarezza nel constatare che le cose non sono affatto cambiate, anzi.

Cani arrabbiati prende corpo e forma attraverso una piccola massa umana, cinque individui schierati 3+ 2 su due sponde all’apparenza opposte: tre banditi di qua, Il Dottore (il capo), Bisturi (uso e abuso del coltello), Trentadue (un John Holmes psicopatico), e due di là, una donna e un padre di famiglia (interpretato da Riccardo Cucciolla, alfiere assieme a Volonté di tanto cinema impegnato) entrambi nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Alla piccola massa corrisponde un impatto tutt’altro che trascurabile, perché Bava nonostante i pochi mezzi a disposizione (un’auto e l’autostrada Roma-Civitavecchia) riesce a realizzare un film di grande tensione, capace di unire alla perfezione le coordinate del road movie con quelle "…dell’huis clos" (Alberto Pezzotta, Mario Bava, Editrice Il Castoro, pag. 93), anche grazie a un cast che ripreso a distanza ravvicinata, molto ravvicinata, dà il meglio di sé non solo grazie alla maschera triste di uomo comune di Cucciolla, ma anche grazie alla performance di Antonio Caponi alias Don Backy che alle prese con un personaggio come quello di Bisturi, perennemente in preda all’instabilità psichica, si mostra capace anche di autentica commozione allorquando è costretto a sparare il colpo di grazia al suo amico Trentadue, a detta di chi scrive una performance la sua, paragonabile a quella di Al Pacino in Quel pomeriggio di un giorno da cani.

Almeno due sono gli assi nella manica che Bava gioca alla perfezione: il primo è la casualità degli eventi che coinvolgono i due ostaggi, casualità che come sempre accade finisce con l’instillare nello spettatore un forte senso di inquietudine perché è sin troppo ovvio costatare come l’ordinato fluire della vita quotidiana non garantisca di per sé nulla e nessuno dall’irruzione improvvisa dell’imprevisto.

Il secondo asso, che i bavologi non mancheranno di notare, è la beffa finale che terremota l’unica identificazione alla quale lo spettatore era rimasto abbarbicato per tutto il film: quella con l’ostaggio Cucciola. Bava la sradica dalla storia in modo così radicale da non lasciare alcun dubbio su quali fossero le sue intenzioni.

Non rimane che riflettere…

Extra

Contenuti speciali del DVD (edizione tedesca): finale alternativo (che in realtà equivale a quello presente nel film)