Kwait 1991. Prima Guerra del Golfo. Una pattuglia in ricognizione viene attaccata da soldati irakeni. Denzel Washington, il comandante Marco, l’ufficiale in comando della missione, viene ferito, così è il giovane sottufficiale Raymond Shaw, interpretato da Liev Schrieber a dover trarre d’impaccio i compagni. L’atto di coraggio vale a questo giovane schivo e introverso la più alta onorificenza militare che il Congresso degli Stati Uniti ha il potere di conferire: la Medaglia d’onore. La fama di eroe di guerra spalanca diverse porte al giovane Shaw tanto che, a più di dieci anni di distanza, lo ritroviamo tra le donne e gli uomini più potenti del mondo, in corsa per la vicepresidenza americana. Intorno alla campagna elettorale si consuma il dramma dei reduci, tormentati da incubi ricorrenti. Ciò che ricordano della missione accadde veramente? Cosa accadde veramente nei tre giorni che passarono nel deserto come dispersi? Cosa c’entrano questi disturbi, comodamente liquidati come sindrome del golfo, con Eleanor Shaw (Meryl Streep), una delle più spietate senatrici del Congresso e madre di Raymond Shaw, uno scienziato albanese (Bruno Ganz, il malinconico cameriere di Pani e tulipani) e una multinazionale nel campo biomedico? Questo e molto altro è The Manchurian Candidate ultima fatica di un maestro del thriller come Jonathan Demme, regista del Silenzio degli innocenti, che ultimamente ha deciso di intraprendere la rischiosa strada dei remake eccellenti. Così dopo aver girato The Truth about Charlie (pellicola incomparabile all’originale Sciarada), Demme ha deciso di cimentarsi nel (pregevole) remake dell’omonimo film diretto quarantadue anni fa da John Frankenheimer e interpretato da Frank Sinatra e Laurence Harvey. Forse qualcuno storcerà il naso davanti a questa dilagante moda hollywoodiana dell’autocitazione (solo in questi ultimi giorni sono stati annunciati i remake di pietre miliari della cinematografia come: La signora di Shangai di Orson Welles,  Il signore e la signora Smith di Hitchcock) eppure questa volta dobbiamo rendere merito a questo progetto. Il merito di questo successo va forse ricercato nella presenza di due premi Oscar del calibro di Washington (deluso, frustrato, spaventato, ma deciso a scoprire la verità sul suo passato) e Meryl Streep (personaggio difficile da decifrare: donna fredda, arrivista e calcolatrice oppure politico profondamente convinto dei propri ideali?) o forse nell’atmosfera paranoica e angosciante che il registra è riuscito a ricostruire. Demme, grazie a una buona fotografia e un ottimo montaggio, ha saputo accentuare il contrasto tra i luoghi bui, angusti e claustrofobici, nei quali si consuma il dramma dei reduci, e l’atmosfera febbrile della campagna elettorale in una New York festante e assolata, ed è riuscito a dosare la narrazione del presente con il riaffiorare di ricordi confusi, fino al momento in cui al Comandante Marco viene svelata la verità cruda e agghiacciante sul processo di manipolazione subito e su cosa questo l’ha portato a compiere. Con questo non si vuol certo dire che il film sia perfetto. In alcuni punti, soprattutto alla fine (purtroppo), nella sceneggiatura ci sono dei piccoli salti logici, dei buchi, che lasciano nel dubbio lo spettatore. Del tutto superflui sono i pochi fotogrammi relativi a un rapporto quasi incestuoso tra madre e figlio e che nulla aggiungono al loro già complesso e tormentato rapporto. Un’ultima considerazione andrebbe fatta su quello che va al di là della pellicola in se stessa per focalizzare l’attenzione sulla realtà che le è sottesa: il rapporto sempre più stretto tra potere politico e potere economico mondiale. Sulla diversa tendenza che ormai in questi ultimi decenni si è andata affermando: non è più il potere politico che può condizionare la realtà economica, ma è il potere finanziario delle multinazionali che può condizionare le scelte politiche. Demme, sulla scia dell’opera di denuncia portata avanti di Michael Moore, non ha fatto altro (si fa per dire) che rielaborare questa nuova disillusione americana e impacchettarla in un prodotto leggero da intrattenimento.