Parigi, 1969. Dopo aver partecipato alle sommosse studentesche dell'anno precedente, un gruppo di amici inizia a fare uso di oppio. Tra loro, François e Lilie iniziano una storia d’amore…

L’effetto, a iniziare dai titoli di testa che anziché scorrere appaiono fissi all’interno di un cartello, insieme al formato utilizzato, un poco comune 1,33:1, il formato classico del cinema muto e della gran parte dei film girati fino agli anni ’50, è da cinema antico, cinema muto appunto, cinema degli albori insomma, effetto che molto semplicemente si solidifica man mano che il film avanza.

Il cinema di questo semi-sconosciuto cineasta (ma è sempre il momento di conoscere qualcosa di nuovo) è per intero un cinema originario e originale, due caratteristiche che ad avercene. Il ’68 parigino che incendiò le menti e i cuori, incendia lo schermo da dentro quello che sembra essere stato il set utilizzato (un’impastatrice per il cemento che appare brevemente sulla destra del quadro lascia pensare a un cantiere…).

Lo scontro è notturno, sospeso e felpato, quasi muto, d’attesa, con gli schieramenti, spesso sezionati in campo-controcampo, che si guatano dalle opposte trincee, raccontato più attraverso le pause e i tempi morti, che attraverso la frenesia della battaglia.

A una prima parte sulle e nelle strade, ne segue una seconda dove Philippe Garrel inizia a muoversi lentamente tra i due principi che appartengono da sempre rispettivamente alla pittura e alla scultura, dove la seconda toglie ciò che la prima ha aggiunto.

Al politico della rivolta dove gli studenti ci hanno le facce sporche di nero dei minatori, Garrel aggiunge il personale (chissà se ancora politico…) di François e Lila, seduti, abbracciati, baciati, con un pudore da brivido che descrive come meglio non si potrebbe un rapporto nato sulle e dalle ceneri di un’utopia.

Ma mentre aggiunge Garrel toglie; toglie gli orpelli arrivando dritto al cuore dei fatti, fino al problema dei problemi che in fin dei conti è sempre quello, quello che chiede incessantemente se a volte a qualche generazione è stato concesso di uscire dalla Storia 1 per entrare nella Storia 2 cercando di rimanere se stessa, il che in definitiva significa marcare strette le proprie inclinazioni.

François, scrive poesie, quindi aggiunge parole allo spazio bianco mentre Lilie, scultrice, preferisce togliere il superfluo che ricopre il calco originale dopo che la colata nello stampo si è raffreddata.

Con questo continuo aggiungere e levare Garrel rilascia un film-passaporto con il quale varcare la frontiera di quel territorio dove a nessuno è permesso di sognare come vivere ma solo e soltanto di vivere come in un sogno (magari quello finale di François che sogna se stesso e Lilie…), un mondo che dentro di sé ne contiene tanti altri, un mondo dentro al quale ci perde, perché ci si perde, non per cose da nulla, ma per via di quella cosa che se non ci fosse non si parlerebbe mai d’amore: l’abbandono.

 

Il paragone avanzato da più parti tra Les Amants reguliers e The dreamers di Bertolucci, per via del triplice motivo che vede:

1. l’argomento identico;

2. la presenza di Louise Garrel (figlio di Philippe) protagonista in entrambe le pellicole;

3. la citazione di Prima della rivoluzione dello stesso Bertolucci

non regge per niente al mondo perché l’operazione di BB era solo e soltanto alta necrofilia, magari cinèfila, ma pur sempre necrofilia, mentre Garrel viaggia lontano anni luce da cose del genere non riesumando ma piuttosto riproducendo, come se la cinepresa fosse stata lì in quel momento, come se ieri non fosse diventato oggi, come se non fossero trascorsi quaranta anni.

 

L’insieme formato dal ’68 francese, B/N, Philippe Garrel (Garrel chi?…), 180minuti, è di quelli che fanno paura, ma perché lasciarsi spaventare?

 

Leone d'argento per la miglior Regia e Osella per il miglior contributo tecnico a William Lubtchansky alla 62ma Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.