Pubblicato a puntate sulla celebre rivista The Strand tra il 1901 e il 1902, Il Mastino dei Baskerville rappresenta l’opera più famosa di Arthur Conan Doyle.

Il romanzo vanta innumerevoli adattamenti cinematografici e televisivi, talvolta non del tutto fedeli all’originale, ed è universalmente noto anche a chi non ama la letteratura di genere mistery.

Una di quelle storie di cui si finisce per conoscere la trama anche senza aver letto il libro.

Holmes e Watson vengono chiamati a indagare sulla morte di un signorotto di campagna, ucciso da un misterioso mastino che infesta da secoli la brughiera del Devonshire.

La presenza di un mostro dalle caratteristiche che sfiorano il soprannaturale richiede subito una sospensione della propria incredulità, ben ripagata dallo svolgimento di una vicenda che conduce i protagonisti lontano dalla familiare Londra, proiettandoli in un’atmosfera spettrale da racconto gotico.

La brughiera di Dartmoor corrisponde iconograficamente alle più ataviche paure degli uomini: il buio, l’ignoto, ciò che va oltre e contro natura, la superstizione e la morte.

L’ambientazione diventa così una vera e propria protagonista del romanzo, al pari dei personaggi.

La descrizione vivida e accurata dei luoghi, che restituisce fedelissima l’atmosfera di quei panorami, rimasti tutt’oggi pressoché invariati, gioca un ruolo fondamentale nel libro e contribuisce alla costruzione di un clima di angoscia e oppressione.

È facile calarsi nel verde cupo della vegetazione, nell’aria intrisa di umidità e nebbia, sentire sopra di sé l’incombente cielo grigio come l’acciaio, quei banchi di nuvole che si muovono veloci sospinti dal vento, il gelo che cala dopo il tramonto, la tenebra assoluta della notte.

Il teatro perfetto per le scorribande di un mostro, e al contempo quello meno congeniale possibile per le indagini dei personaggi.

La loro stessa percezione della realtà viene influenzata, quasi alterata dal clima che influisce in modo molto evidente sul loro stato d’animo.

Il lettore vede attraverso questa stessa lente deformante e viene quasi lasciato a se stesso, un Watson spaurito nella nebbia mentre Holmes rimane assente per buona parte del romanzo, elemento di novità rispetto a tante altre storie della sua saga.

A differenza di altre avventure che hanno come protagonista l’investigatore di Baker Street, qui il debito verso la letteratura gotica è più concreto.

Baskerville Hall è un campionario del genere: corridoi bui illuminati dalle torce, una maledizione che incombe sugli eredi della famiglia, il tetro maggiordomo e la moglie che da subito destano qualche sospetto.

La presenza di elementi come questi, che si prestano ad essere assimilati a dei cliché, potrebbe far pensare a una lettura datata dall’intreccio improbabile.

In realtà, proprio la trama attinge a una vena tutt’ora viva di folclore locale.

Ancora oggi nel Devonshire si sente raccontare la leggenda della Bestia di Dartmoor, una sorta di grande felino che di notte si aggira per la brughiera uccidendo il bestiame.

Queste suggestioni sono sapientemente assemblate, operano di concerto in perfetta sinergia con una scrittura scorrevole, avvincente come si conviene alle pubblicazioni seriali, sebbene forse a discapito della profondità dei personaggi, e che fa largo uso di serrati dialoghi.

Da ultimo, merita ricordare una sottotrama ben congegnata che dona maggior spessore alla vicenda.

Ci si potrebbe chiedere se valga la pena dedicare del tempo, oggi, a un romanzo che sarebbe facile bollare come improbabile, datato e all’antica.

La risposta è certamente sì, non solo per il richiamo del personaggio di Holmes, di fatto l’archetipo dell’investigatore letterario (ricordate, qualche anno dopo, Guglielmo da Baskerville?), né per la notorietà di un'opera divenuta proverbiale, ma perché si tratta di una lettura epocale.

E non c’è nient’altro da aggiungere.