Negli anni Settanta l’Italia è colpita da un’impressionante ondata di violenza causata dalla criminalità comune, organizzata e politica; siamo nel bel mezzo degli Anni di piombo, ma il cinema sembra essersene dimenticato, preferendo i referti rigorosi, ma spettacolari, di registi come Damiano Damiani sulla mafia siciliana o lo sfruttamento sistematico del filone d’oro della figura del “giustiziere della notte”, resa celebre dall’omonimo film statunitense.

E in tempi in cui la magistratura, a torto o a ragione, non gode di buona stampa – né a destra dove viene accusata di eccessivo garantismo né a sinistra dove si sospetta la sua volontà di ostacolare la gloriosa avanzata dell’alleanza tra classe operaia e ceto studentesco – è abbastanza facile creare l’eroe del “poliziotto di ferro”, dai modi eterodossi e tutt’altro che garantisti che insegue una sua personale e sostanziale visione della giustizia.

Narra Roberto Curti, nell’informatissimo saggio Italia odia, che il produttore di Roma violenta cercasse un attore il più possibile somigliante al Franco Nero reduce dal successo del film La polizia incrimina, la legge assolve e che la scelta cadesse sul semisconosciuto Maurizio Merli, apparso in tv nei panni del giovane Garibaldi nel 1974; a completare la (quasi) completa clonazione, anche il nome del protagonista: da Nero-Belli (voluta assonanza col capitano Bellodi de Il giorno della civetta con lo stesso Nero?) a Merli-Betti. Il regista è un professionista dei B-movies, Franco Martinelli, alias Marino Girolami; la sceneggiatura viene affidata a Vincenzo Mannino.

Il protagonista è il commissario Betti, a cui è morto in circostanze tragiche un fratello due anni prima, che, a capo della Squadra Speciale (fatta di infiltrati nella mala comune e di agenti e graduati in uniforme), batte le vie di una Roma assediata da rapine, scippi e microviolenza diffusa: i cittadini si sentono insicuri e molto spesso i colpi degenerano in omicidi per la crudeltà, l’imperizia o la mancanza di sangue freddo dei criminali. Il film non ha un vero e proprio intreccio, è una serie di crimini che Betti persegue a modo suo, non esitando a condurre interrogatori a suon di ceffoni, a sparare alle sue prede in fuga finché, indagato dal solito giudice istruttore tutto codici e sapienza giuridica, decide di dare le dimissioni. Ed è qui che si inserisce un altro tema caro alle cronache dell’epoca, il desiderio da parte di alcuni gruppi di cittadini di costituirsi in corpi paramilitari per denunciare e, perché no, perseguire i malfattori che attentano alla loro sicurezza.

L’ineffabile avvocato Sartori, che ha le fattezze del caratterista italo-americano Richard Conte, arruola negozianti, professionisti, artigiani e il nostro ex commissario Betti; le loro ronde in una città notturna, deserta e in preda alla mala fruttano arresti importanti, poco importa se conditi da violenze assortite dei nostri vigilantes.

In anni recenti in una sua intervista l’attore Ray Lovelock, che impersonava nel film un poliziotto infiltrato e poi costretto alla sedia a rotelle, afferma che la “filosofia” di tali film non fosse tanto quella di diffondere la parola d’ordine law and order, decisamente conservatrice se non fascista sotto alcuni aspetti, ma semplicemente di avvincere lo spettatore di bocca buona per vendere il prodotto. I fuochi d’artificio finali sembrano confermare tale ipotesi: dapprima la figlia dell’avvocato Sartori viene violentata per vendetta davanti ai suoi occhi da due balordi, poi regolarmente puniti (e la visione della bionda donzella seminuda non doveva lasciare indifferenti gli spettatori dell’epoca); poi c’è il lungo inseguimento in auto, stile Il braccio violento della legge, di Betti nei confronti di un rapinatore – il Chiodo – che non esita a uccidere dei bambini lungo il percorso per rallentare l’avanzata dell’ex poliziotto; infine c’è la sostanziale esecuzione da parte di Betti del suddetto bandito che, inerme, viene freddato con alcuni colpi di pistola.

Immaginiamo gli scoppi di entusiasmo nei cinema di periferia dell’epoca, saturi di fumo e di afrori vari – e d’altra parte chi non ha tifato per Rocky contro Ivan Drago qualche anno più tardi? – ma il regista concede allo spettatore più smaliziato e alla critica, da sempre ostile, esteticamente e ideologicamente, a questo genere di film, una bella foglia di fico dietro cui riparare la propria coscienza civile offesa. Si tratta del dialogo finale tra Betti e il suo ex subordinato Biondi, costretto, come detto, su una sedia a rotelle dopo un conflitto a fuoco con dei rapinatori: qui, assai debolmente in verità, viene condannato l’uso delle maniere forti da parte delle forze dell’ordine nell’eterno duello tra legge e malavita in quanto si produce nuova e sempre più efferata violenza.

E il doppio finale – uno politicamente corretto, con un’auto in corsa che falcia Betti mentre esce dalla casa di cura dove è ricoverato Biondi, un altro decisamente furbetto che lo blocca su un fermo immagine in marcia verso altre avventure, testimonia la scarsa attendibilità della precedente tirata moraleggiante che, cinematograficamente, sembra contraddire tutto lo svolgimento del film.

La pellicola ebbe uno straordinario successo di pubblico e consacrò come star del genere poliziottesco il buon Merli, da allora in poi però imprigionato nella sua tipologia vagamente “cristologica” come sottolinea il già citato Curti nel suo saggio; ma, a distanza di quasi quarant’anni, il film mostra in filigrana la debolezza dell’impianto narrativo: al di là infatti della personale e inevitabile botta di nostalgia di chi vi scrive per le gialle cabine telefoniche pubbliche della SIP con relativo gettone, per la Giulia Alfa Romeo che la fa da padrone sulle strade della capitale e per altre chicche di modernariato; e prescindendo da un’acuta rabbia sociale che in questi giorni troviamo pressoché immutata, stavolta diretta contro i politici anziché verso alcuni poliziotti “teneri” e verso tutta la magistratura; in Roma violenta non c’è proprio la storia. Si tratta di un assemblaggio di alcune situazioni-tipo (la rapina sull’autobus, quella al supermercato, lo scippo di vecchie signore per strada) che sono un puro pretesto per l’esibizione muscolare del nostro eroe metropolitano che si erge a difensore del cittadino comune e a sostanziale eversore dell’ordine costituzionale. Sebbene la qualifica, più o meno velata, di “fascista” che per anni ha circondato questo genere di film, e che ha fatto sì che la critica più paludata e ideologicamente orientata a sinistra li stroncasse senza pietà, ad oggi appare assai debole – Quentin Tarantino che si è formato, a detta sua, su questi B-movies è fascista? – sono invece la qualità di scrittura e le invenzioni registiche a latitare. Cosicché viene confezionato un prodotto di onesto artigianato, senza particolari ambizioni se non quella di piacere a un pubblico domenicale facile agli entusiasmi: in attesa di un probabile sequel.

E sì, perché infatti il nostro commissario Betti non ci abbandonerà tanto presto e lo ritroveremo in altri due film di cui ci occuperemo nelle prossime occasioni.

Voto: 6