Eravamo rimasti nel Turkmenistan con il film d’assedio Trinadtsat’ di Mikhail Romm (1936) e il suo imminente “sbarco” nella cinematografia statunitense: per capire però in quali condizioni la storia del film è arrivata in Occidente, bisogna aprire una parentesi.

Il 7 dicembre 1941 le forze aeronavali giapponesi attaccano Pearl Harbour, portando gli Stati Uniti in guerra. Non è però un attacco isolato: è solo l’inizio di un’espansione militare che si estende a tutto il Pacifico e sud-est asiatico. La gran perdita di vite umane ha un solo lato “positivo”: gli sceneggiatori ci vanno a nozze!

Il giorno successivo all’attacco, l’8 dicembre 1941, le forze giapponesi prendono di mira l’avamposto militare statunitense sull’isola di Wake (piccolo atollo a metà strada fra il Giappone e Pearl Harbour), provocando molte vittime: il successivo attacco del 23 dicembre fa cadere l’isola in mano giapponese fino alla fine della guerra. Le notizie tragiche di morte e distruzione rimbalzano sui giornali di tutto il mondo, ma alle orecchie degli sceneggiatori arriva un solo concetto: un manipolo di soldati americani assediati su un’isola in mezzo all’oceano da forze nemiche superiori. Non c’è davvero bisogno d’altro.

         

Ricreato l’atollo sulle rive del Salton Sea (il celebre lago salato della California), viene girato in fretta e in furia il film Wake Island, portato nelle sale americane l’11 agosto 1942. (Arriverà in Italia solo nel novembre 1950 con il titolo L’isola della gloria.) Un ex ufficiale di marina e consulente hollywoodiano sui film di guerra come John Farrow non ha problemi a girare un vero e proprio spot propagandistico per le forze militari americane, una pellicola che non si preoccupa di sembrare datata semplicemente perché è in fondo un instant movie girato al volo - con inserite anche sequenze di cinegiornali - per spingere i soldati USA ad odiare il nemico giapponese, infido e traditore. Non è un caso se le comparse che dovevano interpretare i kamikaze giapponesi erano tutti cinesi nati su suolo americano!

La pellicola può considerarsi “d’assedio nello spirito”, visto che le poche decine di soldati sono costretti sulla piccola isola a dover fronteggiare le forze aero-navali nipponiche, ma serve comunque alla Paramount per dimostrare “stare sul pezzo”: la concorrente Columbia non vuole essere da meno e per rispondere al colpo decide di prendere un’altra recentissima vicenda bellica e farci sopra un film. Sarebbe una sottile cattiveria sottrarre alla Paramount uno degli sceneggiatori di Wake Island, W.R. Burnett, ma ci si accontenta di uno che abbia già lavorato con lui: John Howard Lawson.

Questi sta già lavorando per la Warner Bros alla sceneggiatura di Convoglio verso l’ignoto (Action in the NorthAtlantic) che uscirà nel maggio dell’anno successivo, ma non ha problemi a gestire due sceneggiature quasi in contemporanea. Visto che Lawson è un esponente di rilievo dell’ala dichiaratamente comunista di Hollywood - tanto che molti hanno voluto vedere in Convoglio verso l’ignoto richiami visivi e concettuali a La Corazzata Potëmkin - non si fa problemi ad ispirarsi ai recenti successi della cinematografia sovietica. Nasce così uno dei più grandi successi del periodo: Sahara, in sala dal novembre 1943.

           

Dal novembre del 1942 riviste come “Hollywood Reporter” testimoniano la difficoltà nell’ingaggiare un attore protagonista per la pellicola. Si alternano nomi come Glenn Ford e Melvyn Douglas, e nel gennaio del 1943 si annuncia che Humphrey Bogart sostituirà Brian Donlevy. (Attore che rinunciò al ruolo perché, si dice, fosse stufo di recitare in film di guerra! Detta nel bel mezzo della Seconda guerra mondiale, è una frase quanto meno curiosa.) Con i visi arsi dal sole e madidi di sudore - effetto prodotto spalmando vasellina sui volti e poi spruzzandoli d’acqua - gli attori ricoprono alla perfezione il ruolo di personaggi persi nel deserto. Non più un battaglione britannico della Prima guerra mondiale, come nel romanzo di MacDonald e nel film di Ford, bensì un gruppo di soldati “misti” della Seconda guerra mondiale, all’inizio della prima battaglia di El Alamein.

Rimasto indietro a causa di un guasto, a bordo del suo carro armato il sergente maggiore Joe Gunn (un Humphrey Bogart più Bogart che mai!) cerca di raggiungere l’esercito americano e strada facendo raccoglie un manipolo di soldati britannici comandati dal capitano Halliday (Richard Nugent). Se non bastasse la presenza fra i soldati del francese Leroux (Louis Mercier), a rendere più eterogeneo il gruppo si aggiungono due dispersi che vengono trovati nel deserto: il sergente maggiore Tambul (Rex Ingram) e il suo prigioniero Giuseppe (J. Carrol Naish) «Che tank internazionale è la mia!» esclama Gunn entusiasta, grazie al doppiaggio italiano che rende femminile un carro armato! (In effetti però il personaggio lo ha battezzato Lulubelle in onore di una sua cavalla...)

Non sfugga il fatto che Lawson sceneggia prima un film dove Bogart guida una oil tank (petroliera) e poi subito uno dove lo stesso Bogart guida un tank (carro armato).

Un tempo ufficiale di cavalleria dell’Impero Austro-Ungarico, il regista Zoltan Korda ricrea il deserto nordafricano nella Imperial Valley della California - terra che amò sin dal primo momento in cui emigrò negli Stati Uniti - inondando il set con più di duemila tonnellate di sabbia per dare l’idea delle dune del Sahara. Qui i protagonisti della vicenda - dieci come nella Lost Patrol di MacDonald-Ford - sono costretti a trovare riparo dai rigori del deserto in alcune rovine abbandonate in un’oasi, dove trovano armi abbandonate e un refolo d’acqua a malapena sufficiente per soddisfare la sete. All’improvviso però si ritrovano assediati da un contingente nazista assetato e l’unico modo per sopravvivere è far credere di avere abbondanza d’acqua. Inizia un gioco psicologico fra i dieci assediati dai duecento.

            

Se la storia suona familiare è perché, malgrado nei titoli di testa sia specificato che il film è tratto da «an incident in the Soviet photoplay “The Thirteen” - qualsiasi cosa voglia dire questa strana frase - in realtà Sahara è la esatta fotocopia del Trinadtsat’ di Mikhail Romm: alcune scene sono così identiche che sembrano ricalcate usando lo stesso negativo. Altro che photoplay!

Niente di strano, però, è solo il periodo in cui la cinematografia sovietica conosce il massimo fulgore negli ambienti hollywoodiani, e quasi contemporaneamente la United Artists sta facendo lo stesso con Three Russian Girls - remake del russo Frontovye podrugi (1941) conosciuto in Italia come Natascia - e come se non bastasse lo stesso Lawson nel 1945 scriverà la sceneggiatura per un film della Columbia, Contrattacco (Counter-Attack, 1945), adattandola da una pièce teatrale sovietica dal titolo Pobyeda.

           

«Dietro il viaggio nel deserto c’è il mito dell’Esodo» spiega il critico cinematografico Bernard F. Dick parlando di Sahara. «Lawson ha aggiunto paralleli fra Mosè e Joe Gunn, la manna nel deserto e l’acqua che scorre solo per un miracolo.» (In Radical Innocence, 1989)

Il risultato è un film di grande tolleranza, assolutamente inaspettata per un’epoca in cui l’esaltazione e il nazionalismo bellico hanno creato prodotti razzisti spesso insopportabili: è una storia di uomini che si scoprono tali al di là del colore della divisa che portano, e addirittura al di là del colore della pelle. Non è da sottovalutare infatti la grande innovazione per l’epoca: il personaggio del sergente Tambul interpretato da Rex Ingram, cioè un ruolo di nero (per di più musulmano) interpretato da un attore nero!

Questa rivoluzione per l’epoca si deve al fatto che la NAACP (l’associazione nazionale per l’avanzamento della gente di colore) sta pressando Hollywood per un maggiore pluralismo razziale nei film, al contrario dell’antica tradizione all white tipica della città del cinema. Visto che i soldati al fronte hanno la pelle di tutti i colori possibili, l’associazione vuole che al cinema vengano mostrati attori di colore in ruoli positivi. Nasce così il personaggio di Tambul, che se da un lato non si discosta molto dall’idea bianca di “buon selvaggio” - che parla in modo buffo ma dice cose sagge, pur nella sua semplice primitività - riesce addirittura a parlare di islam in un film di Hollywood. La scena in cui Tambul fa giustizia della perfida spia nazista colpisce così tanto che è ripresa dall’illustratore Anselmo Ballester per una locandina italiana della pellicola, alla sua uscita nelle nostre sale nel 1960. Curiosamente scene simili erano mostrate nell’epoca fascista per mostrare quanto brutti e cattivi fossero gli africani!

           

Una piccola curiosità sempre in ambito “italiano”. In una scena non gradita e quindi non doppiata in Italia, Gunn carica l’alleato Tambul sul carro armato ma lascia il prigioniero italiano a morire nel deserto. Questi lo prega, parlando un ottimo italiano - non il solito “broccolino” made in USA - e mostrando le foto della moglie e del figlio, ma non serve a niente: il granitico Gunn è deciso a mollare l’italiano viscido per strada. I fascisti non sono certo noti per la loro pietà, perché quindi mostrarne loro? Il carro riparte dopo aver gettato a terra l’italiano, ma la compassione al fine prende il sopravvento e caricano il disperso a bordo: solo dopo questa scena il personaggio “entra” nell’edizione italiana, acquistando la voce doppiata del giovane Alberto Sordi.

           

Da una pattuglia “omogenea” del film di Ford si passa a dieci soldati e tre civili della pellicola sovietica di Romm e, seguendo il filo di un “gruppo misto” che rappresenti la società contemporanea, si arriva alla pattuglia assolutamente disomogenea di Lawson: vero simbolo del crogiolo di razze che è l’America.

Ma da dove arriva questo “filo”? Forse che l’idea di un gruppo misto di viaggiatori sia venuta a Romm dalla sua opera precedente, ispirata a un racconto di Maupassant? Non è ancora il momento di parlarne...

Per ora chiudiamo segnalando che nel 1995 per la televisione americana viene girato un remake dal semplice titolo Sahara - arrivato in Italia solo nel gennaio 2003 e trasmesso da Rete4: non si hanno notizie di repliche - con James Belushi nel ruolo che fu di Humphrey Bogart: curiosamente gli unici crediti della storia sono attribuiti allo sceneggiatore televisivo David Phillips. Il film ricalca in tutto e per tutto la pellicola del ’43 - e quindi anche l’originale del ’36 di Romm - e l’unica differenza visibile è quando il prigioniero italiano viene abbandonato nel deserto, e alla volta del sergente Gunn lancia un comprensibilissimo «Mortacci tua!»