Trenta anni (dicasi trenta…) sotto falso nome, un lavoro come avvocato, un lutto, una figlia piccola da crescere. Un giorno, puf, la copertura viene meno l’FBI incalza e tocca di fuggire via non fosse altro perché c’è una innocenza (la propria…) da dimostrare…

Rispetto a The Conspirator (l’assassinio di Lincoln nel 1865) stavolta siamo pressoché ai giorni nostri, anche se il tutto discende dagli Weather Underground, un gruppo radicale di sinistra attivo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta con alcuni atti terroristici di grandissima visibilità (l’esplosione di una bomba al Campidoglio di Washington, il primo marzo 1971, un attentato al Pentagono il 19 maggio 1972, compleanno di Ho Chi Minh).

In primo piano però resta l’oggi e la fuga del Nostro braccato tanto dall’FBI che inizia a fargli terra bruciata intorno che da un reporter d’assalto in cerca di scoop (Shia LaBeouf), Nostro che se da un lato non rinnega la responsabilità politica degli atti compiuti, dall’altro vuole discolparsi dall’ingiusta accusa di omicidio ai danni di una guardia di sorveglianza ad una banca, motivo che lo spinge a rintracciare ex militanti come lui (in particolare Mimi/Julie Christie), gli unici capaci di provare la sua innocenza (così da riconsegnarlo alla vita abituale...)

In soldoni La regola del silenzio e tutta qua, un mix tra Il fuggitivo, Tutti gli uomini del Presidente, I tre giorni del condor, ben governato da Robert Redford (anche se con una regia un po’ piatta…), autore indipendente di un cinema pensante (ma mai pesante…) capace ogni volta di accendere i riflettori su un qualche aspetto dell’America, su ciò che pensa e su come agisce, a volte in modo giusto (e in tal caso non c’è nulla da raccontare…), a volte in modo sbagliato (ed allora qualcosa da raccontare c’è ed eccome se c’è…).

Redford corre e si sbatte anche troppo (ma sempre meglio del gelo che deve aver sofferto Liam Neeson in The Grey…) senza dimenticare, nel tratteggio della figura del reporter che mandando all’aria la sua falsa identità lo consegna alla latitanza, una considerazione sul ruolo del giornalismo e sulle responsabilità che deve assumersi ogni qualvolta che iniziando a raccogliere fatti per amor della verità finisce col coinvolgere coloro i quali quei fatti chiamano vita…

A metterla giù così sembra una sorta di j’accuse di Redford verso il giornalismo investigativo spinto all’estremo, ma forse si tratta solo di un nostro abbaglio…

Vedetelo e giudicate voi.

Noi siamo qua (quasi come al solito…).