«Agente colpito». Così comincia, dopo un forsennato teaser, Skyfall: il 23° James Bond cinematografico, celebrativo dei 50 anni di trasposizioni di una serie che, invece, ne ha 60.

Partono subito i titoli di testa (magnifici!) con una canzone interpretata da Adele che sembra rinnegare le colonne sonore rockeggianti degli ultimi episodi. Scelta giusta. Dopo Madonna e Chris Cornell, l’ultima proprio non si ricorda. Immagini e suoni ci portano con la voce potente e melodica di Adele al Bond dei tempi migliori. Ma qualcosa è cambiato.

Sì, perché malgrado l’inseguimento sotto e sopra i tetti di Istanbul, la lotta sul treno e i cadaveri che fioccano, già da quei primi minuti che, per tradizione, riassumono il mood del film per lo spettatore scatenando l’adrenalina, entriamo in un mondo diverso.

            

Diciamo subito che questo conforta la mia opinione già più volte espressa che un serial per sopravvivere a se stesso negli anni, di fronte a inevitabili cambiamenti nel gusto, nel linguaggio e pure nella politica estera trattandosi di una spy story, deve assolutamente inserire delle novità. Certo, il nocciolo duro di Bond resta lo stesso, forse anche più fedele al modello letterario che oggi pochi spettatori conoscono. «Amore la sera, morte la mattina», come diceva Miranda Frost in La morte può attendere, resta un format intoccabile. Ma qualcosa in questo terzo episodio del reboot è veramente cambiato.

Non solo perché ormai vediamo Bond con i tratti “blue collar” di Daniel Craig, perfetto esempio di ex SAS passato al Servizio Segreto. Pian piano tutta la mitologia si ricrea, appaiono personaggi che credevamo perduti con nuovi volti e nuove caratterizzazioni che, giustamente, non scimmiottano quelle classiche. Giusto per dirne una senza spoilerare (e ce ne sarebbe...) troviamo un nuovo Q. Alla morte di Desmond Llewelyn era stato scelto John Cleese, ottimo comico inglese ma troppo simile all’originale. Entra in scena un giovane saccente. Lo scambio di battute tra il giovane Ben Whishaw è pungente, misurato. E anche se Bond di computer, giustamente, non ci capisce un cazzo trova una soluzione, innescando un meccanismo così subdolamente perfetto da non lasciare dubbi sulla similarietà di una situazione parallela in Avengers.

Naomie Harris
Naomie Harris
E che dire di Eve (Naomie Harris), nera, sexy, incerta tra il servizio attivo e quello amministrativo? Questo ve lo lasciamo scoprire. Perché Skyfall (sin dal titolo e all’accenno che ne vien fatto durante la valutazione psicologica di Bond) è una scatola a incastri, da osservare con molta attenzione.

Cambiare tutto per non cambiare niente? Forse. E forse no. A tratti sembra un remake di L’uomo dalla pistola d’oro ma ci sono eco di tutti gli altri Bond, da Dalla Russia con Amore a Goldenye, a Vivi e lascia morire e ad altri cento dettagli cinematografici e letterari. Ci vorrebbe un libro intero per decrittarlo completamente.

        

Torniamo al principio. Bond è proiettato senza preamboli all’interno di un vecchio albergo. Ha un appuntamento. Trova un cadavere, anzi di più. Lo so, sembra l’inizio di Operazione Barracuda, il più recente Professionista che scrissi l’anno passato e esce proprio in questi giorni [Segretissimo n. 1593]. Piacere mio. Certe intuizioni sono nell’aria. Ma qui troviamo M (Judi Dench, la migliore sostituzione di Bernard Lee... a oggi) che, freddamente, impone a Bond di non soccorrere il collega ferito. Ragione di Stato... necessità superiori. Come quelle che impongono a Eve di premere il grilletto e, temporaneamente, causare uno scacco nelle operazione del Servizio e la morte (presunta) di Bond. Ma... Si vive solo due volte e il nostro si riprende, anche qui con una curiosa similitudine con Bourne, in pochi attimi.

Lo ritroviamo a giocare alla roulette russa con gli scorpioni. Una vita alla deriva. Almeno sinché non gli giunge la notizia di un attacco terroristico alla grandiosa sede dell’MI6 sul Tamigi. Torna Bond, pieno di rancore, sfiduciato dalla sfiduciata M sotto il mirino dei politici. Ma quello che sia Bond che M vedono e gli altri ignorano - o scelgono di ignorare - è il Nemico. O meglio l’ombra del nemico. Perché, questa volta, non si tratta di salvare il mondo dal solito pazzoide con il laser in orbita. È una vendetta personale. Consumata dal doppio negativo di 007 che forse qualche ragione ce l’ha anche. Sempre vittime sacrificabili alla ragion di Stato. Ma qui il gioco torna a farsi sottile.

A differenza di Trevelyan che in GoldenEye tornava per regolare un conto personale con Bond, questa volta il bersaglio è M. Un odio feroce, inestinguibile che muta per sempre i rapporti tra Bond e la sua diretta superiore. Mai stati ottimi, per la verità. Eppure questa volta M falsifica i test che decreterebbero una assoluta inadeguatezza del suo agente a riprendere il servizio. Non ci sono dottoresse compiacenti a salvarlo (come ne Il mondo non basta). Bond soffre, suda, sanguina. Sbaglia il bersaglio. Eppure, come nei versi di Tennyson che M cita sotto processo davanti a un’odiosa ministra che è l’emblema dei politici oggi: «è pronto a non cedere mai». E questa è alla fine la qualità che resta immutata nell’agente di ieri come in quello di oggi.

           

La missione poi riparte con destinazioni esotiche, fascinose e spettacolari ma funzionali alla vicenda. I grattacieli di Shanghai, il casinò fluttuante di Macao (che non è esattamente così ma ci sta...) un quartiere abbandonato che potrebbe essere la Cittadella di Kowloon. Poi si ritorna a Londra, anche questo un twist inaspettato perché la capitale inglese sempre stata solo luogo di passaggio per le missioni di 007. Qui invece è teatro di una doppia lotta.

Daniel Craig e Javier Bardem
Daniel Craig e Javier Bardem
Il vecchio Servizio contro la burocrazia che vorrebbe mandarlo in pensione per sostituirlo con chissà che cosa e il figliol prodigo uscito allo scoperto per portare a termine la sua vendetta contro M. Ora, trovo abbastanza ridicolo il plauso della critica paludata a Skyfall solo perché il regista è Sam Mendes e il villain è il pluripremiato Javier Bardem. Ancora più insulsa è la sottolineatura dell’ambiguità sessuale del nemico e il rilievo dato a una battuta in cui Bond incrina il suo stesso mito di virilità. Queste sono le solite fregnacce della critica radical chic che premia solo “auteur” e omosessualità come simbolo di progressismo.

C’è da rilevare, però, che Bardem riesce a recuperare un vero villain dopo che gli ultimi si erano rivelati poco più che macchiette. Mathieu Amalric (Quantum of Solace) non faceva il peso e anche Le Chiffre (Casinò Royale) con le sue lacrime di sangue era troppo fumettistico. Bardem dà ottima prova di recitazione, diventa il Joker, Scaramanga, Blofeld e il fratello nero di Bond tutti insieme. Lo provoca sessualmente, è vero, ma la sua follia è diretta solo e unicamente contro M. A lei dà la caccia dai tribunali di Londra (in una scena esaltante dove il Servizio fa quadrato intorno a Judi Dench, un momento di quelli che ti smuovono dentro) sino alla Highland scozzesi dove, finalmente, in una terra arida, invernale e cupa, riemerge l’infanzia di Bond di cui tanto si è speculato e poco detto. Ma torniamo al momento in cui M è sotto il fuoco del suo “figlio” (professionalmente parlando) cattivo.

           

Judi Dench
Judi Dench
M non è immune da macchie, lo abbiamo visto sin da principio. Non svolge un incarico di carità. Già in passato l’abbiamo vista prendere decisioni spiacevoli. Eppure nel viso segnato della Dench conserva un’umanità che è la traccia di quella “famiglia allargata” che era il Servizio Segreto nei primi film, in cui neanche si poteva pensare che non fossero tutti fratelli, amici e leali. Bond era il figlio scapestrato, Moneypenny la cugina innamorata senza speranza, Tanner e Q il fratello e lo zio sempre pronti ad aiutare il protagonista. Era il trucco che funzionava meglio a quell’epoca. I buoni contro i cattivi. E i buoni, come Bond, erano invincibili.

Qui con altrettanta astuzia abbiamo visto Bond restare fisicamente invincibile anche se prima ci è stato mostrato sofferente, invecchiato. Più suda, più la sua vittoria è esaltante per lo spettatore. Al tempo stesso il nuovo MI6 appare dilaniato, pieno di Talpe, come diceva lo stesso Bond nel primo romanzo del ’53 «Con gli anni diventa più difficile distinguere il bene dal male». Ma qui entra in scena il coup de theatre. In questo quadro desolante si profila la vera minaccia. M è sotto tiro. E la famiglia si riunisce, senza esitazione. Bond corre a perdifiato, spara e uccide. Eve impugna la pistola, Tanner fa scudo con il suo corpo all’anziana M. Persino Mallory (Ralph Fiennes) sino a pochi minuti prima odioso, diventa uomo d’azione. E Silva (Bardem) resta solo con il suo odio. Malgrado le legioni di mercenari che può assoldare non può contare né sulla stima né sull’affetto di nessuno. Questa forse è la differenza.

              

B
B
Ultime due doverose annotazioni. Bérénice Marlohe nel ruolo di Severine è la donna che tutti vorremmo incontrare. Almeno nel mondo delle spie. Bellissima, misteriosa, sexy e tormentata. In qualche modo ricorda miss Andrea (Maud Adams) di L’uomo dalla pistola d’oro ma ha, nei modi e nel trucco, qualcosa di estremamente struggente che la classifica come una delle migliori Bond Girl degli ultimi film.

Malgrado l’impronta autoriale di Mendes si senta più che in altre occasioni con altri registi, l’azione è sempre ad altissimi livelli. Una scena, breve ma perfetta su tutte: la scazzottata tra Bond e il killer Patrice in controluce sul grattacielo di Shanghai. In pochissime battute tutto il realismo di un vero close-combat.

Tornerà Bond? Sicuramente, perché di missioni ce ne saranno sempre e di eroi (della fiction) c’è sempre bisogno. Conoscete il nome, conoscete il numero.