Da cento numeri questa rubrica si prefigge di dimostrare che la letteratura è uno degli attributi della realtà e che ogni finzione è reale nella misura in cui si voglia credere che lo sia. Gli pseudobiblia sono “libri falsi” per definizione, ma visto che vengono citati, studiati, in molti casi letti e creduti reali, in cosa mai si distinguono dai “libri veri”? Semplice: da quanto si vuole credere che siano reali.

In questo numero della rubrica - forti dell’impunità che si attribuisce a chi stia festeggiando un evento - parleremo di un libro reale, consultabile all’Università di Yale, ma ci divertiremo a sottolineare quegli aspetti di solito sorvolati dai tantissimi studiosi dell’argomento: quegli aspetti cioè che avvicinano il protagonista di questo articolo alla finzione letteraria.

Del Manoscritto di Voynich si è scritto fino allo sfinimento: i dati tecnici e storici, così come le ipotesi e beghe varie, potete leggerle con dovizia di particolari nella pagina Wikipedia a lui dedicata: quello che a noi qui preme è qualcosa di diverso, cioè il fatto che esso sia il simbolo della finzione letteraria per eccellenza, creduta reale da quella schiera di appassionati che da cento anni spendono capitali e tempo nel tentativo di decifrare ciò che vogliono credere essere il codice più enigmatico della storia, spesso dimenticando le condizioni in cui esso è “nato”.

                     

Nel 1912, in un antico castello dell’Europa del Sud, Wilfrid Voynich trovò un antichissimo e misterioso testo in codice, ricco di enigmi: è questa una delle prime ricostruzioni dei fatti, a testimonianza che ciò che più interessa è la fiction, non la realtà. Non era un castello bensì la biblioteca di un monastero, ed era un’Europa decisamente “a sud”, visto che si trattava di Villa Mondragone nei pressi di Frascati (a due passi da Roma). Qui dei lavori di ristrutturazione fecero sì che si vendessero vecchi manoscritti, alcuni dei quali vennero comprati da Voynich: uno di questi fece la sa fortuna, tanto da portarne ancora oggi il suo nome.

Ma chi era Voynich? Che ci faceva un polacco-lituano che viveva fra Londra e New York a Villa Mondragone? Semplice: come tanti illustri nomi prima e dopo di lui metteva in atto ciò che aveva letto, perché tutta la realtà non è altro che un plagio della letteratura... Ma andiamo con ordine.

                     

Nel burrascoso est europeo di fine Ottocento il giovane Michał Wojnics non si preoccupava tanto di lasciare sicuri dati biografici quanto di aderire ai più accesi gruppi rivoltosi russi, che organizzavano atti di terrorismo come quei “demoni” letterari che sarebbero divenuti immortali grazie al loro più acerrimo detrattore, F.M. Dostoesvkij. Imprigionato nel 1885 e condannato a morte, proprio come al citato maestro russo la pena gli venne commutata in anni di reclusione in Siberia, da cui fuggì in una rocambolesca avventura degna di un feuilleton. Raggiunta a piedi Londra (!), con un commovente espediente da romance – riconobbe i capelli intravisti durante la prigionia - incontrò e sposò quella che fu l’unica sua moglie, quella Ethel Lilian Boole che sarà molto più famosa di lui, come romanziera, traduttrice e attivista politica. Da noi è nota (come E.L. Voinic) per il suo romanzo ambientato nella tumultuosa Italia risorgimentale: Il figlio del cardinale (The Gadfly, 1897, sebbene la rara edizione italiana riporti The Breezefly, titolo inesistente nella bibliografia dell’autrice ma sinonimo di Gadfly quindi probabilmente una manomissione italiana dell’epoca).

Wilfrid Voynich
Wilfrid Voynich
A quanto pare Michał abbandonò il terrorismo e l’ideologia politica, tirò fuori con disinvoltura il titolo nobiliare polacco-lituano Habdank-Woynicz solo per ignorarlo con benevolenza proletaria e si occidentalizzò il nome in Wilfrid Voynich... venditore di libri.

È in realtà difficile trovare un’espressione che identifichi la professione di Voynich, e curiosamente solo chi ne ha scritto dopo la morte è riuscito a trovarla. Mentre infatti i contemporanei lo definivano “bibliografo” o al massimo “collezionista”, dopo l’eclatante successo del Manoscritto e dopo la morte dello scopritore – con relativo spargimento di dati biografici forniti dall’interessato, che sicuramente raccontò nient’altro che il vero - tutti si trovarono concordi nel definirlo “rare-book dealer”.  Venditore di libri antichi? No, non proprio: non sarà una traduzione precisa, ma visto l’operato del Voynich rende molto meglio chiamarlo “cacciatore di libri”.

Nel 1998 Donald C. Dickinson ha stilato un Dictionary of American Antiquarian Bookdealers in cui si trovano biografie e informazioni di tutti i contemporanei di Voynich... ma di lui non v’è traccia. Quindi egli non era in realtà un venditore accreditato? Non è esatto, perché una citazione Dickinson la fa: parlando dell’austriaco Max Harzof dice che ammirò l’amico venditore di libri Voynich. Quindi era sì un bookdealer, ma forse non così importante da avere una voce a sé? Come mai ha compiuto (come vedremo) gesta incredibili eppure nessuno sembra interessato alla sua attività libraria? Non lo sapremo mai con esattezza, perché nessuno si occupa del povero Wilfrid: sono tutti occupati a decifrare il suo Manoscritto...

Ma in che mondo viveva un bookdealer, famoso o meno, in quel periodo? Fra gli ultimi anni dell’Ottocento e il 1912, quando cioè Voynich brillò nel cielo della bibliofilia, com’era il panorama librario in cui ci si muoveva?

                        

In quei burrascosi anni a cavallo fra Otto e Novecento c’era la sensazione palpabile che un mondo di manoscritti antichi fosse lì ad un passo dall’essere scoperto. E dove potevano trovarsi reperti così preziosi se non negli antichi monasteri di cui l’Europa (e non solo) era disseminata?

Erano ancora forti gli echi della scoperta che fece Konstantin von Tischendorf nel Monastero di Santa Caterina (sul Monte Sinai) dove, a metà Ottocento, venne ritrovato il Codex Sinaiticus: una delle più antiche raccolte bibliche. I monasteri erano protagonisti di storie gotiche da sempre, ma ora avevano un valore aggiunto: erano potenziali depositari di manoscritti rari e misteriosi.

Il barone Robert Curzon, avventuriero in caccia di libri
Il barone Robert Curzon, avventuriero in caccia di libri
Malgrado oggi sia considerato un personaggio minore, in quegli anni infiammava la fantasia il racconto delle gesta di Robert Curzon, barone inglese che narrava con doti da consumato romanziere le sue avventure nei monasteri di mezzo mondo, impegnato nella sua attività favorita: la caccia al libro. A Souriani, in Egitto, nel tentativo di mettere le mani su antichi Vangeli in copto dovette vedersela addirittura con un abate cieco... Umberto Eco, dove sei? In una appassionante avventura sul Monte Athos, in Grecia, Curzon raccontò la sua storia più degna di finire nell’Enciclopedia della Finzione: l’abate gli avrebbe detto «Non ci servono più i libri antichi: saremmo lieti se ne accettasse uno».

Che questa frase gli sia stata veramente detta, non ha veramente alcuna importanza: alla fine dell’Ottocento l’immaginario collettivo era ricco di abati allocchi che, nei loro monasteri ricchi di fascino, davano via manoscritti antichissimi. (Non si considerava che gli abati, tutt’altro che allocchi, erano contenti di questa fama e sfruttavano la situazione per vendere a caro prezzo manoscritti di nessun valore!)

L’avventura sul Monte Athos di Curzon influenzò Madame Blavatsky, che la rielaborò e la inserì nella sua Iside svelata (1877), che a sua volta venne letta dal giornalista Nikolaj Notovich e “messa in pratica” dieci anni dopo per spiegare il fantasioso ritrovamento in Tibet della Vita segreta di Gesù. (Per saperne di più, rubriche/11987/).

Nel 1908 Montague Rhodes James scriveva il celebre L’album del Canonico Alberico, davvero paradigmatico dell’epoca. Il protagonista è un turista in viaggio sui Pirenei che trova del tutto naturale chiedere al prete locale se ha dei manoscritti antichi da vendergli. (Per sua sfortuna, il prete ce l’ha, ma per saperne di più: rubriche/8753/)

Quando nel 1910 la Francia è infiammata da L’Eresiarca di Guillaume Apollinaire - con il reverendo Benedetto Orfei che stila un Vangelo di Dio (rubriche/10663/) - ci si rende conto che il gioco degli pseudobiblia sta diventando redditizio, che cioè la veridicità di un testo non è più fondamentale: perché il suo valore salga alle stelle, importano di più le condizioni in cui esso è stato trovato (o scritto).

Questo era il mondo librario in cui “nacque” Voynich. Come può qualcuno iniziare la carriera di venditore di libri senza essere affascinato dagli echi di queste storie? Come può un qualsiasi appassionato di libri non sognare di scoprire un antico testo (vero o falso) in un monastero? Nel 1912, in un monastero sperduto nella provincia italiana, Voynich trovò quindi un manoscritto sicuramente vero...

          

In quel 1912 Voynich in campo librario era un’autorità indiscussa. Dopo aver lavorato per lui, E. Millicent Sowerby nelle sue memorie (Rare People and Rare Books, 1967) avrà parole di grande stima per l’uomo, definendolo «il più grande commerciante internazionale di libri rari del suo tempo». In trent’anni vendette al British Museum qualcosa come 3.800 libri, tanto che il museo ha adottato la voce “Voynich” come catalogazione. Il suo catalogo del 1902 An Eighth List of Books on Exhibition raccoglie esclusivamente «unknown and lost books»: possibile che questo Voynich riuscisse a trovare incredibili quantità di libri “persi e sconosciuti”?

Wilfrid Voynich nel 1885
Wilfrid Voynich nel 1885
Nel citato catalogo il nostro commerciante di libri scrive che sarebbe troppo bello se i libri da lui raccolti fossero davvero unici, anche se un po’ ci spera,  e specifica che «naturalmente non si è cercato materiale in ambienti poco degni di fiducia, come cataloghi di libri in vendita e liste di librai». E dove si è cercato, allora?

I collezionisti operano per vie misteriose, ed è noto che il “colpo grosso” lo si fa trovando libri rari e preziosi dove nessuno sa che quei libri siano tali. Comprare da un libraio non è un buon affare perché questi probabilmente sa cosa sta vendendo; comprare da uno sprovveduto è un’occasione decisamente migliore.

Insomma, Voynich si mostra modesto ma dà più l’idea del cacciatore di libri con un bel po’ di pelo sullo stomaco. E anche fortunato, visto che prima dell’inizio del Novecento il suo catalogo A First List of Books vanta ben 25 «libri sconosciuti, persi non descritti, risalenti a dopo il 1525».

«Molti di questi libri sono conosciuti solo nell’esemplare della collezione Voynich» ammette candidamente Bruce Whiteman nel suo delizioso «Only Copy Known»: Random Reflections on Rarity (raccolto in Book Talk: Essays on Books, Booksellers, Collecting and Special Collections, 2006). Altri suoi libri furono protagonisti di uno strano fenomeno: subito dopo essere stati scoperti da Voynich, altre copie degli stessi si sono ritrovate, tanto che egli nel suo A Second List of Books (1900) di nuovo modestamente sollevò seri dubbi sul definire “unici” i manoscritti trovati.

«Quot caelum stellas, tot habet Europa libellos», recitava Andreas Wallin nella sua Dissertatio academica de bibliomania (1762): è vero, in Europa ci sono più libri che stelle nel cielo... ma molti di questi sono falsi, aggiungiamo noi.

Il citato Whiteman, dopo aver analizzato la curiosa fortuna di Voynich nel trovare un ingente numero di libri unici e sconosciuti, non si azzarda a ventilare ipotesi di manomissioni se non addirittura di falso – non esistendo prove, nessuno può farlo – ma curiosamente inserisce il collezionista polacco fra la truffa umoristica del Catalogo del Conte Fortsas (di cui si è parlato qui: rubriche/8254/) e l’incredibile collezione di Thomas James Wise, celebre bibliografo di cui Whiteman tace il fatto fosse anche un noto falsario. (Si può essere bravi in entrambi i campi contemporaneamente, checché ne se pensi.)

Posizionare in quel punto Voynich, cioè fra due note truffe, è stato un sottile modo per dire che lo stesso Whiteman subodora la “fregatura”? Non possiamo dirlo, così come non si può affermare che Wilfrid fosse meno che onesto: era solo un cacciatore di libri molto, molto fortunato...

                

Pagina del Manoscritto di Voynich
Pagina del Manoscritto di Voynich
«Non si può imparare a scuola» dice David Randall, vero antiquarian bookdealer di Chicago dal 1929 al 1956, riferendosi alla propria professione (la stessa di Voynich), «ma solamente attraverso un lungo apprendistato. Studi approfonditi in letteratura, storia e lingue e in ogni branca della conoscenza, dalla più generica a quella più esoterica: tutto può servire». Non si studia da cacciatore di libri, conclude Randall: lo si impara vivendovi. Nel 1897 Voynich già pubblica autorevoli cataloghi di libri rari da lui trovati: visto che nel 1890 arriva a Londra fuggendo a piedi dalla Siberia (terra storicamente avara dal punto di vista bibliografico), c’è da chiedersi quanto tempo abbia dedicato a “vivere” da bookdealer...

Insomma, Wilfrid Voynich ha attorno a sé un bel po’ di mistero, checché ne dicano i suoi biografi. Questo però non cambia la realtà: bazzicando un monastero nella speranza del colpo grosso, Voynich lo fece sul serio e si portò a casa un bel po’ di manoscritti antichi, fra cui il celebre Manoscritto omonimo. (Degli altri testi comprati a Villa Mondragone, nessuno sembra interessarsene.)

Com’è noto, il Manoscritto è pieno di illustrazioni non meglio identificate e fittamente scritto in una lingua sconosciuta. Qualche maligno potrebbe pensare che un burlone possa aver scarabocchiato disegni e inventato lettere per creare un manoscritto da vendere a cifre esorbitanti, ma non è questo il primo pensiero dell’Armata dei Voynichiani, che sin da subito ha dato per scontato che fosse un codice cifrato che rivelasse i più meravigliosi segreti. (Tesoro dei Templari, Graal, Giardino dell’Eden: sparate nel mucchio e non sbaglierete.)

Una finzione, si diceva, è reale tanto quanto la si crede tale. Fra le pagine del manoscritto inintelligibile è stata ritrovata una lettera che permetterebbe di datarlo con una certa precisione. Ma guarda un po’ a volte la combinazione: nell’impossibilità di datarlo con sicurezza e quindi di poter decidere un prezzo sufficientemente alto, il cacciatore di libri è aiutato da personaggi storici reali che – talmente desiderosi di tenere segreto il manoscritto cifrato – ne parlano in una lettera per nulla “cifrata”. E qui entra in circolo vizioso la Sindrome dell’Autoreferenzialità: la lettera è vera perché lo dice la lettera.

Tanta è stata l’immediata voglia di credere nel Manoscritto, che avvenimenti assolutamente inesistenti prima del 1912 subito dopo si sono come per magia realizzati. Così il Manoscritto è stato identificato in avvenimenti di secoli addietro dove prima del 1912 non c’era, e non sembravano esserci “buchi” disposti ad accoglierlo. Le persone citate nella fantomatica lettera – persone esistenti in quanto hanno lasciato traccia di sé – non hanno mai dato adito al sospetto di aver parlato del Manoscritto, ma se lo dice la lettera... allora hanno parlato del Manoscritto.

Non importa se il testo in questione è una truffa medievale – com’è facile che sia, visto che c’erano i mezzi, la tecnica e l’abitudine a far truffe per guadagnarci bei soldoni – o se è una truffa del Voynich – che probabilmente non ne aveva né le possibilità né la necessità, dato l’alto livello di fiducia cieca di chi comprava libri da lui. Ciò che importa è che dal 1912 il Manoscritto esiste “anche” nel passato; tutti quegli avvenimenti che prima non avevano il Manoscritto protagonista, ora ce l’hanno; tutti quei personaggi che non hanno mai avuto quel testo, ora ce l’hanno avuto. Quanto è vera questa finzione? L’abbiamo detto: tanto quanto ci crediamo.

                 

I voynichiani risponderanno che non è così, che anche prima del ritrovamento del Manoscritto nel 1912 c’erano almeno due testimonianze della sua esistenza. La prima è la lettera presente all’interno... e l’autoreferenzialità chiude il suo circolo vizioso.

Sir Thomas Browne
Sir Thomas Browne
La seconda è più curiosa.

Scrivendo una lettera all’amico studioso Elias Ashmole, il 29 marzo 1674 il filosofo Sir Thomas Browne raccontò di essere in confidenze strette con il dottor Arthur Dee, figlio del celebre John. Questi gli raccontò che quando viveva fanciullo in Boemia,  il padre faceva delle “trasmutazioni” usando una polvere e un manoscritto avuto da Edward Kelley con all’interno «nient’altro che geroglifici». Il “sentito dire” non aiuta molto a rendere utile o attendibile quest’informazione, né il fatto che chi evoca questa lettera di solito tace il fatto che John Dee possedesse centinaia di manoscritti, plausibilmente non tutti comprensibili agli occhi del figlio Arthur e comunque tutti catalogati in numerosi saggi - da cui non risultano “buchi” in cui inserire il Manoscritto.

Curiosamente nel 1781 i primi lettori della Critica della ragion pura di Immanuel Kant usarono la stessa espressione («un libro contenente nient’altro che geroglifici», come ci racconta il primo relatore Johann Schultz): che il celebre filosofo tedesco abbia scritto la sua opera basandosi sul Manoscritto di Dee-Voynich?

                    

Saggisti recenti hanno cercato involontariamente di aiutare il Voynich nel plagio letterario raccontando di come il nonno di John Dee abbia ricevuto dal duca di Northumberland il Manoscritto. E come l’aveva avuto il duca? Indovinate un po’? L’aveva trovato in un monastero...

Ma allora qual è la conclusione? Il Manoscritto è un falso? Voynich un falsario?

Non ci sono le prove per affermare o smentire nulla. Voynich sicuramente ai biografi raccontò solo il vero – perché quando si racconta del proprio passato si è sempre onesti... – ed in cambio ricevette il dolore di venir ricordato per uno solo delle centinaia di libri sconosciuti che seppe recuperare. Perché nessuno si informa o cita gli innumerevoli libri rarissimi trovati e venduti da Voynich?

Lo sanno gli autori di feuilleton che il pubblico va stuzzicato, va intrigato e stupito. A chi importa che Voynich abbia recuperato un esemplare dei Progymnasmata di Aftonio? A chi importa che abbia salvato una copia in greco del Catechesis tes Christianikes Pisteos? Ma l’ha fatto sul serio? Qualcuno li ha autenticati o siccome li ha trovati Voynich allora automaticamente sono autentici? Non si sa, e di nuovo: a chi importa?

Il pubblico vuole il mistero e il Manoscritto glielo offre da 100 anni (prima era sconosciuto, quindi non offriva alcun mistero!). Il pubblico vuole l’esoterismo, e via ipotesi fantasiose sul vero segreto contenuto del Manoscritto. (Essendo indecifrabile, ognuno può leggerci ciò che vuole). È un gioco, e tutti possono giocare; è finzione, e tutti possono fingere. Cos’altro è la letteratura se non gioco e finzione?

                  

Pagine multiple del Manoscritto di Voynich
Pagine multiple del Manoscritto di Voynich
Alla fine di questo articolo sarà rimasto deluso chi credeva in tesi più affascinanti, così come spero sia rimasto infastidito chi crede ciecamente che il Voynich sia un testo arcano e misterioso: la probabilità che sia una truffa – passata o recente – è alta e comunque non va mai scartata a priori, in nessun caso.

Chiusa questa parentesi “festeggiante”, torniamo tutti in un mondo che ha bisogno di credere a tutto, compreso che il misterioso linguaggio del Manoscritto custodisca in sé segreti inenarrabili. Eppure c’è qualcuno che trova più affascinante l’idea che un misterioso cacciatore di libri dell’Est abbia in pochi anni conquistato l’Europa (e poi il mondo) versandogli addosso interi scaffali di libri “persi o sconosciuti”: non è Voynich un grande eroe di quello sconfinato feuilleton che altri chiamano realtà?