Ian Lancaster Fleming si svegliava verso le 7, scendeva i 36 gradini di cemento che portano alla baia e, vestito solo di una maschera Pirelli, nuotava fino alla barriera corallina. Poi risaliva e faceva colazione in giardino con sua moglie Ann e il loro unico figlio, Caspar, quattro anni: uova strapazzate e caffè raccolto sulle Blue Mountains, la catena che si alza alle spalle di Kingston, la capitale, lungo la costa meridionale dell'isola. Scostava la sedia, girava attorno al tavolo per baciarli, attraversava una piccola veranda, entrava nel soggiorno, chiudeva la porta e avvicinava le gelosie tropicali delle finestre, composte da liste di legno sottili e mobili. Andava allora alla scrivania, fatta ad arco di cerchio, a due piani. Quello superiore era dominato da una lampada, al cui stelo erano addossati i romanzi di Bond, James Bond, fino a quel momento usciti: in ordine di pubblicazione, Casinò Royal, Vivi e lascia morire, Moonraker, Una cascata di diamanti e Dalla Russia, con amore. Su quello inferiore era appoggiata una macchina per scrivere portatile, di marca Imperial. La risma di carta stava a sinistra, e sulla destra un quadernetto con gli appunti. Scriveva fino a mezzogiorno. Si metteva al sole e si rituffava in acqua. Dopo pranzo, dormiva almeno un'ora. Verso le 5 tornava nel soggiorno, rivedeva i fogli riempiti la mattina e poi li chiudeva nell'ultimo cassetto, in basso a sinistra, della vecchia scrivania, lì accanto. Su quel mobile massiccio, a tapparella, cinque anni prima l'agente 007 era uscito per la prima volta dalla sua fantasia. «Un prodotto di puro intrattenimento», avrebbe detto in un'intervista. «Il risultato di sogni febbrili, in cui un autore si vede come gli sarebbe piaciuto essere: bang- bang-bang, smack-smack- smack, quel genere di cose. Insomma, ciò che ci si può aspettare dalla mente di un adolescente, esattamente come a me capita di avere». Ma questo sarebbe successo molto più tardi, nel 1963, quando i suoi libri avevano venduto una trentina di milioni di copie e, presa a prestito la faccia da Sean Connery, Bond era diventato un'icona planetaria. Adesso era soltanto il 1957 e Fleming, come sempre, faticava a fare i conti con se stesso. Aveva un carattere massimamente complesso, con una marcata tendenza all'infelicità e all'autodistruzione. La fama era ancora lontana e, comunque, non l'avrebbe guarito dalla malattia che gli consumava l'anima. Il matrimonio con Ann, sposata nel 1952 dopo un'altalenante relazione adulterina che si trascinava dal 1939, cadeva a pezzi. Le sue divagazioni sessuali erano frequenti e al solito caratterizzate da un priapismo brutale e senza scrupoli: non era geloso «perché le donne non valgono un'emozione così forte, sono come animali domestici, come cani». L'aveva detto a Londra, durante la guerra, al tenente Alan Schneider, assistente personale del commodoro Tully Shelley, capo dello spionaggio della Marina americana in Europa, e non aveva mai cambiato parere. Ma, soprattutto, si sentiva svuotato, incapace di continuare la saga dell'agente segreto prima ancora che gli desse quel riconoscimento cui il suo ipertrofico ego ambiva. Ruminava l'idea da quasi dieci anni quando, il 15 gennaio 1952 (secondo uno dei suoi biografi, John Pearson) o un'imprecisata mattina dopo il 16 febbraio (secondo un frammento del diario di sua moglie), cominciò a scrivere Casinò Royal. Ne aveva accennato per la prima volta nel luglio del 1944, in Normandia, appena visitate delle installazioni di razzi tedeschi V-2 vicino a Carteret. «Cosa farai dopo la guerra?», gli aveva chiesto Robert Harling, suo collega nella Stanza 39 della Naval intelligence division (Ndi, il servizio informazioni della Marina britannica). «Scriverò la spy story definitiva, dopo la quale sarà impossibile pensarne un'altra», fu la risposta. Invece, pur essendo arrivato al quinto episodio, «Bond, James Bond» era ancora un personaggio in cerca di consacrazione.

Le vendite in Gran Bretagna erano appena discrete e negli Stati Uniti, il mercato più importante, neppure quello. Estenuanti trattative per la riduzione cinematografica di ognuna delle storie si erano incagliate per una ragione o per l'altra, senza approdare a nulla. Copioni ad hoc per la rete televisiva americana Cbs, in cui il protagonista era diventato americano e il nome era stato cambiato in James Gunn, non avevano mai superato il primo, grezzo, abbozzo. Così, era un Fleming sfiduciato quello che, all'inizio del gennaio 1957, salì sul Superconstellation che lo avrebbe portato a Kingston, dopo uno scalo a New York (Ann e Caspar attraversarono l'Atlantico in nave). Qualche settimana prima, alla fine di novembre, aveva scritto una lettera a Michael Howard, uno dei dirigenti della Jonathan Cape, la sua casa editrice, per avvertirlo di non aspettarsi un libro dalla sua prossima visita in Giamaica dove, come sempre, avrebbe svernato per i primi tre mesi del nuovo anno: «La fontana del mio genio si sta prosciugando». E al padre di Howard, Wren, il gran capo della Cape, aveva confidato di «trovare sempre più difficile entusiasmarmi per Bond e le sue improbabili avventure». Tutto sembrava indicare che, ancora una volta, quest'uomo di 49 anni, dall'indole scostante e dagli occhi melanconici, non sarebbe riuscito a vincere la sbiadita modestia che era stata fino ad allora il tratto distintivo della sua vita. Nipote di un geniale impiegato di Dundee che, avendo inventato i fondi d'investimento, si era arricchito fino a fondare una propria banca d'affari; orfano di un ufficiale degli Ussari dell'Oxfordshire (il reggimento della regina) ucciso da una granata tedesca in Francia, il 20 maggio 1917, davanti alla linea Hindenburg; con una madre impossibile, perdutamente mondana, cui era legato da un complicato rapporto di amore-odio; schiacciato da un fratello maggiore, Peter, al quale tutto riusciva nel migliore dei modi, Ian Fleming poteva tranquillamente passare per un esemplare non raro: il rampollo dell'alta borghesia cui non manca nulla, eccetto che una qualsiasi qualità. Garantito dal patrimonio accumulato dal nonno, se l'era sempre cavata grazie alle relazioni familiari, una estesa rete che, partita dalla City, arrivava all'establishment politico-militare e a Buckingham Palace. Così era riuscito a entrare il 2 settembre 1939, a 31 anni e con ammirevole tempismo, nei servizi segreti: aveva il grado di Comandante della riserva e le funzioni di assistente personale del capo dell'Ndi, l'ammiraglio John Godfrey.
Per quanto la leggenda cresciuta in seguito lo abbia indicato come l'uomo che aveva trattato il volo di Rudolf Hess in Scozia nel maggio 1941, poi come il contatto dell'ammiraglio Canaris, il responsabile dello spionaggio tedesco, e infine come il protagonista dell'operazione che portò Martin Bormann (il vice di Adolf Hitler) in Inghilterra nel 1945, non gli si può in realtà accreditare nessuna impresa memorabile. Quest'aggettivo impegnativo è tuttavia adeguato ai giorni del gennaio 1957. Senza un'idea forte in testa, Fleming riprende la bozza buttata giù l'anno prima per la Cbs, che aveva per protagonista «uno spione internazionale indipendente di estrazione cino-tedesca» e di nome Dr. No, attratto nei Caraibi dall'esistenza di una base missilistica anglo-americana. Ci aggiunge i ricordi di un viaggio fatto l'anno prima, con un professore del Museo di storia naturale americano, a Inagua, l'isola più meridionale delle Bahamas diventata una riserva naturale per decine di specie di uccelli, dove si poteva girare solo con «un fuoristrada sul quale erano montate enormi ruote». Dà alla protagonista femminile il soprannome di una ragazza americana (Honeychile) che, prima di sposare il principe tedesco Alex Hohenlohe, era una showgirl nel corpo di ballo di Bob Hope: l'aveva conosciuta qualche anno prima a Mittersill, vicino a Kitzbühel, e ne era rimasto abbagliato. Approfitta di una lettera, ricevuta nel maggio precedente, scrittagli da Geof frey Boothroyd, un appassionato di pistole di Glasgow che si dichiara entusiasta di 007 ma critica la scelta della Beretta calibro 25, «un'arma per signore». Tutto, parola per parola, entra nella sesta avventura di Bond, James Bond (solo Inagua diventa Crab Key, un isolotto a metà strada fra la Giamaica e Cuba). Dr. No cresce, pagina dopo pagina, in quello che Fleming amava definire il «lussurioso vuoto» di Goldeneye, la proprietà da lui acquistata sulla costa settentrionale della Giamaica nel 1946. Era stato ammaliato dall'isola quattro anni prima, durante una conferenza per proteggere le rotte del Nord Atlantico dagli U2 tedeschi: «Ho preso una decisione», aveva detto durante il viaggio di ritorno verso Wa shing ton a Ivar Bryce, un agente della Sis. «Vinta questa fottuta guerra, vengo a vivere in Giamaica, nuoto e scrivo libri». Aveva comprato sei ettari di terreno a Oracabessa, una ventina di km a est di Ocho Rios. Poi ne aveva aggiunti altri sei, vendutigli da Blanche Blackwell, l'ultima donna importante della sua vita, una quarantenne divorziata, nata in una famiglia di ebrei sefarditi anglicizzati, arrivati in Giamaica nel Seicento, dove avevano ammassato una considerevole fortuna. Cinque anni, tanti quanti ne erano trascorsi dal primo foglio dattiloscritto di Casinò Royal, sarebbero ancora passati prima che Dr. No diventasse un film, trasformando Ian Fleming in uno degli autori di culto del XX secolo. Il contratto venne firmato nel giugno 1961. Le riprese iniziarono durante l'inverno. La prima mondiale fu proiettata a Londra nell'ottobre successivo. Fleming non si occupò della produzione, ma pretese che al figlio di Blanche, Chris, venissero affidate logistica e location.
Con i soldi guadagnati, il giovane Blackwell fondò la Island Records, la casa discografica che qualche anno dopo lanciò Bob Marley. Adesso è un ricco signore con interessi negli alberghi. Ha comprato anche Goldeneye: la villa in cui Fleming scrisse tutti i 14 romanzi di «Bond, James Bond», si può affittare per 5mila dollari americani al giorno. Allora, in cambio della sua preziosa conoscenza dell'isola, i produttori Harry Saltzman e Albert «Cubby» Broccoli gli offrirono l'1 per cento degli incassi. Preferì farsi pagare in contanti, mille sterline. Fu il peggiore affare della sua vita. Ecco i titoli pù famosi 1953 Casinò Royal 1954 Vivi e lascia morire 1956 Una cascata di diamanti 1957 Dalla Russia con amore 1958 Licenza di uccidere 1959 Goldfinger 1960 Solo per i tuoi occhi 1961 Operazione tuono 1962 La spia che mi amò 1964 Si vive solo due volte 1966 Octopussy Da Connery a Brosnan 1962 Agente 007, licenza di uccidere (Sean Connery, nella foto) 1967 Casinò Royale (David Niven) 1969 Al servizio segreto di Sua Maestà (George Lazenby) 1973 Vivi e lascia morire (Roger Moore) 1983 Mai dire mai (Sean Connery) 1987 Zona pericolo (Timothy Dalton) 1999 Il mondo non basta (Pierce Brosnan)