Lo ammetto: è stato l'amico Pietro Spirito, giornalista e scrittore, a convincermi a leggere questo romanzo che, alla sua uscita, mi attirò, ma non a sufficienza.

E' stato un suggerimento prezioso, quello di Spirito. La lettura di Quo vadis, baby? mi ha invogliato a scoprire qualcosa in più dell'espressione letteraria di questa autrice, Grazia Verasani. La mia curiosità è stata premiata sia dal romanzo Fuck me, mon amour che, soprattutto, dall'antologia Tracce del tuo passaggio.

Spronato da tante positive impressioni, ho contattato quindi per mail Grazia, donna di grande disponibilità e simpatia. Ecco l'intervista che abbiamo preparato.

Ciao Grazia, e benvenuta nel salottino degli approfondimenti di ThrillerMagazine.

Come hai visto gironzolando per il sito, questo è un canale tematico, ma l'approccio che abbiamo al genere (thriller, noir e affini) non è rigido.

Premetto un tanto, perché se nessuno può negare che Quo vadis, baby? sia un noir, è altresì vero che gli appassionati "duri & puri" potrebbe essere inclini a rilevare come il tuo lavoro si collochi in una zona di confine tra quella che viene convenzionalmente chiamata "narrativa di genere" (distinzione a volte utile, a volte perniciosa) e la cosiddetta littérature blanche. O sbaglio?

Non sbagli. Quo vadis, baby? non è un giallo “al sangue”: non ci sono ammazzamenti, sparatorie, menti deviate. Del noir ha la malinconia e si occupa di un’indagine introspettiva, di un’infrazione (il suicidio), che resta un rebus senza soluzione. Non sarei in grado, credo, di riempire pagine descrittive o tecniche sul lavoro della polizia. Cerco di approfondire la psicologia dei personaggi e di creare piccole suspance all’interno di microstorie quotidiane, con un’attenzione al sociale e alla mia generazione. In questo senso Quo vadis, baby? è una commistione di generi: monologo interiore, romanzo pop-esistenziale, storia d’amore, omaggio al noir francese, che amo insieme a Chandler e alla Highsmith, e ispirato in particolare a Il treno della notte di Amis e La scatola nera di Amos Oz, due letture fondamentali durante la stesura del romanzo. Il suicidio è il tema che ricorre ossessivamente in quasi tutti i miei libri, forse per una forma di esorcismo, forse perché ne ho avuto esperienza in-diretta. In questo caso mi interessava raccontare una donna (che per lavoro indaga sugli altri) costretta a fare i conti con se stessa e col proprio passato, fino a perdersi in quella grande indagine confusa che è la vita, e a non trovare verità assolute ma solo incertezza.

Credo nell'efficacia dell'autopromozione ;). Dai: sintetizza tu ai lettori la trama, ma soprattutto lo spirito, di Quo vadis, baby?

Giorgia, la protagonista, è una donna di oggi, complessa, contraddittoria, come ce ne sono tante, che non ha trovato il senso della vita nel matrimonio e nei figli, forse perché aveva troppi dubbi, forse a causa di traumi precoci, forse perché ha subito il peso degli affetti. E’ una donna che sa ridere perché conosce il dolore. E’ sempre sulla difensiva ma, all’occorrenza, è in grado di ri-giocarsi i sentimenti. Giorgia fa un percorso a ritroso, sulle tracce della sorella suicida. Sa che è dura vivere senza rimuovere, cioè accettare l’assenza di chi si ama. Ha uno sguardo dritto, pungente, che non si nasconde. Fuma e beve perché deve raccontarsela un po’ e, grazie a dio, ha un sense of humor che la salva sia dal cinismo sia dal piagnisteo. Le accadono parecchie cose durante questo “viaggio accidentato” tra passato e presente…

Sei stata tu a cercare il noir, o viceversa? C'è stato un minimo di forzatura in questo incontro a metà strada, oppure è il risultato di un processo naturale?

Nessuna forzatura. Avevo coscienza di avere scritto un noir atipico e di non essere un’esperta del genere.

Devo dire però che ho molta stima per i giallisti. Ora più che mai sono loro a raccontare delle storie vere e proprie, a darsi una disciplina, e a interpretare il mondo. E spesso lo fanno con più umiltà e spirito critico dei narratori “puri”, che al momento mi sembrano un po’ troppo autoriferiti.

In un'intervista, confessi di non essere una lettrice sfegatata di gialli, anche se ami Chandler, la Highsmith, Izzo e Simenon. Di essere più ispirata da Martin Amis e altri autori non di genere per dare vita a Giorgia Cantini, "lottatrice" con "aura da perdente". Vuoi dirci qualcosa di più in merito a queste ispirazioni, e sull'influenza – diretta e, più probabilmente, indiretta - che possono aver avuto su Quo vadis, baby?

Le influenze sono tante. Tutto ciò che faccio, la mia stessa vita, è il prodotto di una “grande influenza”: incontri, odori, ricordi, luoghi, libri amati alla follia, scazzi, illuminazioni improvvise, disorientamenti, sguardi, parole, musica, film…

In Quo vadis, baby? c'è una irrinunciabile presenza: quella della morte. OK, normale, trattandosi di un noir. Qui però non è tanto la morte come enigma da risolvere, omicidio o suicidio che sia quello della sorella di Giorgia Cantini (un trauma mai rimosso nella memoria della protagonista, un groppo mai digerito). No, qui è la morte come sensazione, come pensiero condizionante, come emozione. Quella che permea, in modo radicale, profondo, le esistenze di tutti noi. La morte che conosciamo, quella di amici, parenti, non quella esterna a noi, quella che vediamo in uno schermo o leggiamo in un libro. Un'ombra non sempre tangibile, che va e viene; chi ne soffre di più, chi meno, in ogni caso più di quanto si vorrebbe sopportare. Sto dando una falsa interpretazione al tuo lavoro?

Siamo sempre più “televisivi”, semplificati, appiattiti da una vita di rappresentanza, dai nostri problemi di autostima, dalla paura del giudizio degli altri. Pianifichiamo le cose con l’illusione di poterle controllare, e abbiamo perso il gusto di vivere alla giornata, il “qui e ora”, morte e vita insieme: vada come vada…

Ti cito, da Quo vadis, baby?: "[I quarantenni di oggi] mi sembrano adolescenti intrappolati in corpi che invecchiano." La generazione dei nati negli anni sessanta è quella che più da vita alle tue storie. Una generazione che descrivi con grande sagacia. Qualche commento?

La paura di invecchiare credo cominci a quarant’anni, e allora si vanno a bere gli aperitivi, si cercano pigramente storie disimpegnate, si pratica qualche sport e subito dopo ci si fa una canna, si gioca a fare i “single professionisti”… Si vive più di rimpianti che di sogni e si è convinti di non poter cambiare più. Reduci dall’abuso delle emozioni forti ci piace pensare che ci siamo “emancipati dall’incubo delle passioni”, come canta Battiato…

Altra citazione: "(...) Ingeborg Bachmann, la mia scrittrice preferita, diceva sempre che scrive è solitudine, isolamento e insoddisfazione." Un'affermazione che Giorgia Cantini pare dunque condividere, valutare almeno come possibile, se non probabile. Riflette anche, in parte o del tutto, il tuo pensiero?

Completamente. Io che amo i giochi di squadra mi sono ritrovata a scegliere la solitudine come strumento di lavoro…

E sono sempre insoddisfatta, sempre autocritica. Ma continuo a credere all’arte come a una forma di dissenso. (E a una dolorosa ma inevitabile dipendenza.)

 

Ancora, in altro punto: "I sogni dell'adolescenza diventano realtà. Valeva la pena farli?"

Carmelo Bene diceva: Un sogno che si realizza non puoi più chiamarlo “sogno”. La penso come lui. I sogni, quelli veri, restano nei cassetti. E tendo a non fidarmi delle persone che si sentono “realizzate”. Sono insensibile ai traguardi, all’idea del successo che hanno molte persone. Spero solo di continuare a esprimermi in totale libertà. Poi, certo, dovrei anche finire di pagare il mutuo della casa…

Tracce del tuo passaggio (Fernandel) è un'antologia di racconti brevi (tra cui nomino, come esempio, Il rumore del mondo e Il gesto sbagliato) che nell'occasione consiglio ai lettori. Mi ha regalato attimi intensi, supportati da una prosa dinamica, aderente alla cruda realtà di ogni giorno, eppure a tratti lirica. Le antologie, in Italia, generalmente non hanno la fortuna che meritano. Mi sembra sia stato anche il tuo caso. Dai, parlaci un po' di questo libro...

Ti ringrazio. E’ il mio figlio più sfortunato (300 copie vendute), e il più amato insieme a From Medea. Scritto in un momento tosto. Usato come una zattera per non sprofondare. Forse il libro più triste, più radicale e conciso. Ho cercato di toccare l’osso delle cose. Di pensare al blues, raffreddando la disperazione per farla emergere più sottilmente. Non so se ci sono riuscita. Ma la sfida era quella.

Prediligi la narrazione in prima persona, o almeno così pare. Una scelta che permette un lavoro di introspezione maggiore, ma che richiede anche una forte empatia e una capacità di immedesimazione non comuni. Doti che tu possiedi, che sono evidenti soprattutto in Tracce del tuo passaggio, dove i protagonisti narranti sono molto diversi tra loro per estrazione, sesso, cultura, mentalità, età...

Ho parlato di scelta narrativa, ma magari sono in errore. Nel senso, che potrebbe non essere l'azione conscia di una scrittrice che valuta i suoi obiettivi narrativi, e le vie più efficaci per raggiungerli attraverso la propria comunicatività. Semplicemente, ti viene assai più naturale scrivere in questa forma.

Che mi dici a riguardo?

Ho bisogno di autobiografia. Anche se la fantasia fa le sue modifiche. Devo sentire sulla pelle le cose che scrivo. Il desiderio è quello di arrivare agli altri, di spingerli all’immedesimazione. E’ una sorta di dichiarazione d’amore fatta a ignoti. E lo fai accettando il rischio del rimpallo…

Il sesso (il modo in cui viene vissuto dai tuoi personaggi, come aspetto delle relazioni – amorose e non) è un altro componente importante, se non decisivo, della tua narrativa...

Be’, il sesso è una cosa che non ho nemmeno bisogno di fare tanto è importante per me, tanto è connaturata in me. Anche nel modo “fisico” in cui mi approccio alla scrittura. Non a caso la mia canzone preferita è My Sex di John Foxx. Detesto le trasgressioni gratuite, i cliché della seduzione e il sesso ginnico. Però nel sesso “puro” trovo una verità fuori dai conflitti della testa, senza la presunzione di conoscere o possedere l’altro. Una specie di “purezza animale”, che in certi casi mi conquista profondamente – letterariamente e no.

Joy Division, Sex Pistols, Stranglers, Damned, Ramones, PIL, Psychedelic Furs, Cure... sono solo alcuni dei gruppi che ricordo hai citato nei tre libri tuoi che ho letto. Nomi che, tra la righe, confesso di incontrare volentieri anche tra le pagine di un libro. Tu sei una musicista: quanto e come tale formazione entra, interagisce, completa il tuo essere scrittrice?

Moltissimo. Scrivo un romanzo come se fosse il lungo testo di una canzone, con i suoi incisi, i suoi accordi maggiori e minori, il suo ritmo e la sua melodia. Adoro il linguaggio musicale di alcuni scrittori - come Celine, per intenderci (be’, lui è un genio). E non potrei vivere in un mondo senza musica. Sono un’istintiva, non sono un’intellettuale. E sono una patita di Jaco Pastorius. Un’utopia? Riuscire a imitare- quando scrivo – le note profonde e emotive del suo basso elettrico, capace di citare Hendrix e subito dopo Miles Davies.

Anche Bologna, la tua città, ha la sua influenza su ciò che scrivi. A pag. 16, fai dire a un taxista: "Non è che nella altre città sia diverso. Però qui la differenza la noti di più, perché Bologna era un posto dove succedevano un sacco di cose e tutto sembrava sempre funzionare." A pag. 32, troviamo scritto: "davvero Bologna è diventata piatta, incolore, senza più distinzioni di diversità. Ma la nostalgia, però, non ha mai cambiato le cose."

Non amo la nostalgia. Ma come ci si può dimenticare piazza Maggiore coperta di centinaia di sacchi a pelo la notte che precedette il concerto di Patty Smith del ’79?

La piazza, oggi, ha perso quel valore… Bologna, anche se è la città dove sono nata e l’unica dove riesco a vivere (in Italia), è diventata una provincia ricca, scontrosa, radical chic. Qui è stato autoprodotto uno dei film più interessanti degli ultimi anni: Paris Dabar, una gara alcolica nelle vie della città. E adesso, ironia della sorte, Cofferati ha vietato l’acquisto degli alcolici da asporto dopo le ore 21. Un proibizionismo all’americana che davvero non ci aspettavamo…

Colorado Noir è una collana legata al gruppo Mondadori e alla Colorado Film Prodaction, ed è nata con il duplice scopo di portare in libreria degli ottimi gialli e noir che avessero le caratteristiche per essere portati al cinema da produzioni nazionali. Qualche parola sulla collana, su come ci sei approdata, su questa esperienza in generale. In particolare, il romanzo è il frutto di un progetto scritto nell'ottica libro/film della collana, oppure è stato riconosciuto adeguato a posteriori, e in quanto tale inserito nel programma editoriale?

Avevo già promesso idealmente il libro a Sironi Editore. Poi, quando è arrivata la proposta di Colorado e del film, Giulio Mozzi stesso mi disse che era un’occasione irrinunciabile. E’ nato tutto per caso, incrociando sulle scale di un locale bolognese Sandrone Dazieri, direttore editoriale della collana. Gli dissi: Forse ho scritto un noir… Una settimana dopo firmavo il contratto. Non c’era mai stata tanta velocità e fortuna nella mia vita. Comunque, il libro non l’ho scritto pensando al cinema. E’ un romanzo, coi suoi pregi e difetti, ma non è una sceneggiatura. Certo è che negli scrittori di oggi il cinema entra a pieno diritto come un elemento imprescindibile.

Non credo che di ogni libro facciano un film. Il cinema non sta godendo di così tanta salute… 

  

Quo vadis, baby? – il film tratto dal tuo libro – è uscito in questi giorni. La regia è di Gabriele Salvatores, uno dei padrini (assieme a Sandrone Dazieri, scrittore ed editor, Maurzio Totti, produttore, e Giorgio Gosetti, direttore del Noir in Festival) di Colorado noir. Di certo sarai stata coinvolta nelle fasi di lavorazione, oltre a visionare in anteprima il film. Un'esperienza interessante? Soddisfatta? Emozionata? Qualche delusione?

Ho fatto per mesi lunghe chiacchierate con Salvatores, e ci siamo capiti. L’essenza del libro non è stata tradita. Lui ha amato la donna che raccontavo e ha dato la sua personale interpretazione della storia. La mia gratitudine per lui non si discute. Io credo che il suo film sia bello, coraggioso e autoriale. Sono stata sul set e dopo pochi minuti sono corsa al bar a farmi un gin lemon. Pensavo a certi cognomi usati nel romanzo (e nel film) rubati all’appello dei miei ex compagni di classe. Pensavo alla notte in cui rivedendo Ultimo tango a Parigi su Rai 3 mi è scattata l’idea…

Anche se mi è capitato di collaborare a due sceneggiature per film, in questo caso ero troppo coinvolta. Il regista e lo sceneggiatore non dovrebbero avere l’autore del romanzo tra i piedi. Così, per Quo vadis, baby?, ho preferito restare defilata.

Grazia e la narrativa, Grazia e la musica, Grazia e il cinema. Ma anche Grazia e il teatro...

La mia passione per il teatro è ancora grande. E From Medea (la piece pubblicata da Sironi) mi sta dando molte soddisfazioni. E’ già stata rappresentata a Roma, in Sicilia, e all’estero.

Vorrei continuare a scrivere per il teatro, anche se è un patrimonio sempre più a rischio di estinzione, e gli autori contemporanei non sono molto rappresentati. 

Cosa stai leggendo in questi giorni?

Ho appena iniziato Perceber, di Colombati. L’ultimo che ho letto è H.P. L’autista di Lady D. di Beppe Sebaste.

Giorgia Cantini tornerà?

A volte ritornano…

Domanda finale di rito: altri progetti?

Ho collaborato all’ultimo cd degli Aeroplanitaliani (appena uscito per la Sugar) e attendo l’uscita di alcune antologie con un paio di miei racconti. Continuerò quest’estate a promuovere Quo vadis, baby? nelle rassegne estive dedicate agli incontri letterari. Mi prenderò del tempo per leggere i romanzi di alcuni autori esordienti che mi hanno chiesto un consiglio. C’è il progetto interessante di un film di un giovane regista… Ma soprattutto mi sto scontrando con un nuovo noir: dei giorni mi piace, degli altri mi manda in depressione… Ma è così per tutti. E in tutte le cose.