Siamo agli inizi degli anni Sessanta, ed una sera tre amici si riuniscono per una cena: sono Russ Meyer, Charles Eugene Sumners ed E.M. Nathanson. Quest’ultimo è un giornalista che vuole fare il salto di qualità e diventare romanziere, e per questo sta cercando di mettere insieme una buona storia. Gli altri due ne hanno parecchie da raccontargli, visto che sono stati fotografi di guerra. Fra le storie narrate quella sera, una in particolare colpisce Nathanson.

Meyer e Sumners durante la guerra passarono una notte ospiti di un avamposto britannico che aveva anche una prigione al suo interno: ufficialmente, però, quella prigione non esisteva. Videro le condizioni di vita dei prigionieri e fecero diverse foto, tutte però requisite al momento di andar via: nessuno doveva sapere che quella prigione esisteva. Nathanson rimase affascinato da quest’idea, e ancora nel 1962 chiamò sia Meyer (che si apprestava a diventare il celebre regista che tutti conoscono) che Sumners per continuare a farsi raccontare quegli avvenimenti di vent’anni prima. I due accettarono con piacere, e dopo tre anni Nathanson poté finalmente pubblicare il suo primo romanzo: “I dodici dannati” (The Dirty Dozen, 1965). Il successo fu talmente clamoroso che due anni dopo il libro divenne un film immortale: “Quella sporca dozzina”.

Tutto questo però lo racconta Sumners nel suo libro di memorie “Darkness Visible” (2002) - precisando che Meyer ricevette ben dieci mila dollari per la storia, mentre lui è rimasto all’asciutto! - non sappiamo se i fatti si siano svolti davvero in questo modo, ma di sicuro né Sumners né Meyer hanno accennato al numero degli uomini in quella prigione fantasma...

C’è chi dice invece che Nathanson si sia ispirato ai Filthy Thirteen: questi “sporchi tredici” erano una divisione non ufficiale di paracadutisti dell’Aeronautica, guastatori, soldati specializzati in missioni ad altissimo pericolo - che potrebbero addirittura considerarsi suicida! «Noi non eravamo assassini o che altro» tiene però a precisare Jack Agnew, uno dei pocchissimi rimasti vivi della divisione: proprio sua figlia, Barbara Maloney, ha affermato che Nathanson si è ispirato a quella divisione per la sua storia: ma i “dodici dannati” erano galeotti, non un corpo scelto.

Niente di strano, comunque: Nathanson può aver preso i racconti della galera britannica e averli fusi con le imprese degli “sporchi tredici” e poi aver lavorato di suo. È questo che fanno i romanzieri, no?

La domanda che invece noi ci facciamo è: Nathanson ha visto il film giapponese “13 Assassins”, uscito un paio d’anni prima che lui pubblicasse il romanzo “I dodici dannati”? E Kaneo Ikegami, lo sceneggiatore del film, sapeva dell’unità degli “sporchi tredici” statunitense? Chi ha ispirato chi?

Forse nessuno ha ispirato nessuno e le storie sono nate indipendentemente. Però certo i dodici samurai di Ikegami (che solo alla fine diventeranno tredici), messi insieme per una missione praticamente suicida in nome di un bene superiore, un po’ fanno pensare ai dodici “dannati” e alla loro missione molto simile. Visto poi che sono nati praticamente negli stessi anni, proprio cioè in quel periodo in cui il cinema nipponico veniva saccheggiato a piene mani dagli statunitensi, farsi delle domande è lecito. (“I magnifici sette”, 1960; “Per un pugno di dollari”, 1964; “L’oltraggio”, 1964: tutti film americani nati più o meno dichiaratamente sulla falsariga di titoli giapponesi.)

The Thirteen Assassins
The Thirteen Assassins
Fatto sta che nel 1963 il regista Eiichi Kudo porta al cinema “13 Assassins” (Jûsan-nin no shikaku), cavalcando la moda degli jidaigeki: film cioè che romanzano veri avvenimenti storici.

Nel 1844 il fratellastro dello Shogun morì di malattia durante un trasferimento: non sappiamo se già all’epoca si parlò di assassinio, ma fatto sta che lo sceneggiatore Kaneo Ikegami crea una storia secondo cui tredici samurai vennero segretamente (ed ufficiosamente) ingaggiati per uccidere lo spietato fratellastro dello Shogun, che avrebbe gettato il Giappone in un’epoca di guerra e violenza. Tredici uomini che non esistono, quindi, visto che ormai la figura del samurai stava già svanendo, ingaggiati ufficialmente da nessuno per una missione praticamente suicida: il dramma storico è servito!

Con un bianco e nero virtuoso e pregiato, il regista crea atmosfere di grande intensità, ma il tutto contribuisce ad una disumanizzazione dei personaggi. Il paragone con “Quella sporca dozzina” viene spontaneo (malgrado quest’ultimo film duri almeno trenta minuti di più). Mentre nel film americano più dell’azione in sé viene messo l’accento sulla ben delineata caratterizzazione di ogni “dannato”, nel film giapponese i samurai vengono solamente citati una volta per nome e poi dimenticati: a parte Shinzaemon, che è l’organizzatore, gli altri dodici sono ombre che si muovono sullo schermo senza un vero perché. Tutta la storia è per Shinzaemon e Hanbei, il consigliere del perfido Naritsugu: sono loro a gestire il film, mentre gli altri sono solo comparse per riempire le scene d’azione.

Il combattimento finale nella cittadina è sorprendente: il fiero cipiglio dei samurai, il loro comportarsi come super-guerrieri crolla miseramente ed esce fuori un lato inaspettatamente umano dei personaggi. Nessuno combatte come nei chambara, i film giapponesi di combattimenti con la katana: non ci sono colpi maestri né scenate cinematografiche. Tutti hanno una paura del diavolo, malgrado siano votati alla morte, tirano colpi approssimativi, inciampano, si rotolano nel fango, combattono in modo pessimo e inefficace, sia i buoni che i cattivi. Non è uno scontro onorevole, è una rissa da strada in cui non si può mai dire chi vincerà, perché nella confusione non si capisce neanche bene contro chi si stia combattendo. Il superomismo mostrato dai samurai finisce nel fango del combattimento finale, con un guizzo davvero insperato di grande umanità.

 

Umanità che finisce nel 2010 quando il celebre regista Takashi Miike firma il remake del film, recentemente giunto anche in Italia. Miike porta il concetto di remake alle estreme conseguenze: “13 assassini” è una copia carbone dell’originale del 1963!

Ovviamente delle differenze ci sono: piccole, ma ci sono. Il film originale non dava risalto alle scene truculente e alla violenza che invece ha reso celebre Miike. Ecco che quindi il seppuku che apre il film nell’originale è già avvenuto, nel remake viene mostrato in tutta l’esecuzione (anche se viene inquadrata solo l’espressione del protagonista); le nefandezze del perfido Naritsugu vengono suggerite nell’originale, mostrate con dovizia di particolari nel remake; la povera donna mutilata dal crudele signore è completamente assente nell’originale: è lecito pensare che Miike abbia voluto citare il proprio film “Audition”, in cui si ritrova una scena simile (anche se sarebbe lecito anche pensare ad una citazione del “Titus” shakespeariano). Differenze minime, si diceva, che invece crescono d’intensità man mano che il film procede. Il tredicesimo samurai, personaggio quanto mai posticcio e debolissimo, è molto diverso nelle due versioni, ma in entrambe è relegato talmente ai margini della storia che stupisce che venga contato nel numero dei protagonisti.

Molto importante il combattimento finale con le sue differenze. Il film del ’63 non aveva effetti speciali, era tutto molto più “rustico”. Il remake ha roboanti scenografie, esplosioni come fosse capodanno ed effetti speciali spettacolari. Ottiene però un effetto indesiderato: alcuni spettatori potrebbero chiedersi perché i protagonisti, visto che hanno a disposizione tutto questo arsenale, finiscono a fare a spadate? Non potrebbero tirare uno dei tantissimi candelotti di dinamite addosso a Naritsugu?

Una delle scene simili fra originale e remake
Una delle scene simili fra originale e remake
Comunque la vera differenza sostanziale è nelle ultime scene, dove a quanto pare finalmente il film di Miike prende una sua strada personale. Chi ancora non avesse visto il film, può saltare questo paragrafo.

Il Naritsugu moderno è il classico super-cattivo cinematografico, spietato fino alla fine; quello originale è solo il classico burocrate che fa la voce grossa ma che davanti al pericolo strilla come un bambino. Non merita più di tanto attenzione, e la sua fine è rapidissima e senza importanza: il momento topico del film è nello scontro fra Shinzaemon e Hanbei. Miike fa esattamente il contrario (Hanbei se ne va via in un lampo!), ma al di là di questo aggiunge un gustoso dialogo tra questi ultimi due che forse è il messaggio del regista. Per fare il proprio dovere fino alla fine, Hanbei muore per il proprio signore anche se lo disprezza; nell’originale, Hanbei potrebbe evitare di farlo perché ormai il suo signore è bello che andato. Ma proprio perché Naritsugu è morto, Hanbei sente di aver perso l’onore: Shinzaemon si fa colpire a morte da lui proprio per donare al vecchio amico l’onore di aver ucciso il nemico. Cinematograficamente parlando, preferiamo l’onore del vecchio film al cieco e supino dovere del remake!

E.M. Nathanson fu ispirato dalla storia di dodici samurai che vanno a morire di nascosto per il bene del Paese? Kaneo Ikegami fu ispirato dalla storia degli “sporchi tredici” che morirono di nascosto per il proprio Paese? Per questo a tre quarti del film fa spuntare un inutile tredicesimo guerriero così da raggiungere un numero-citazione?

Non lo sappiamo né lo possiamo sapere. Però forse anche Nathanson volle nascondere una citazione “illuminante” in un numero. Nell’aprile del 1965 lo scrittore andò a depositare il copyright del romanzo “I dodici dannati”. Indovinate di che giorno? Esatto: il 13!