Relativamente poco rappresentata nell’odierna invasione del noir nordico, nonostante Anders Bodelsen sia stato uno dei primi giallisti danesi a sbarcare nel nostro paese nei primi anni Settanta, la Danimarca si prende ora la sua rivincita con questo Assassinio di lunedì.

Dan Turèll, scrittore morto prematuramente non ancora cinquantenne nel 1993, pubblicò negli anni Ottanta una serie di tredici noir di cui questo è il terzo in ordine d’uscita in patria e il primo a essere tradotto in Italia. L’anonimo io narrante protagonista è un quarantenne giornalista freelance – dai tratti somatici più latini che scandinavi – del “Bladet”, immaginario quotidiano di Copenhaghen: qui è approdato dopo un tormentato passato da ex musicista ed ex guida turistica, con un matrimonio fallito alle spalle con Helle, peraltro già morta, e con un problematico presente fatto di molte sigarette, tanti cocktail e una donna in carriera, l’avvocato Gitte Bristol, che non sa se tenere il figlio che aspetta da lui.

Benché l’io narrante ironico e autoironico nonché anonimo talvolta ecceda nella ricerca della battuta ad effetto da finto cinico – e qualche gioco di parole finisce per perdersi nella traduzione – tuttavia l’inchiesta si svolge con una rassicurante tranquillità in un sobborgo della capitale danese in un piovoso e nevoso gennaio dei primi anni Ottanta quando il pc lo possiedono in pochi e il cellulare è sconosciuto a giornalisti e poliziotti. Vengono strangolate tre bionde ragazze in tre lunedì successivi e sempre il nostro eroe si trova a essere testimone diretto dell’evento per la felicità del suo direttore Otzen che così può contare su prime pagine assicurate per giorni e giorni. Buon per lui comunque che a dirigere le indagini sia il commissario Ehlers, della centrale di Halmtorv, sua vecchia conoscenza dopo alcune avventure in comune: con tutta probabilità quelle dei due episodi precedenti della serie che la Iperborea ha deciso per ora di non tradurre.

Assieme cercano di capire in quale ambiente sia potuto nascere questo inafferrabile assassinio seriale; ma l’inchiesta – invero la parte più debole del romanzo – per l’autore è solo un pretesto per tratteggiare alcuni aspetti meno conosciuti della sua città: quartieri degradati, razzismo strisciante (il protagonista stesso ne fa le spese in un bar perché lo scambiano – visto l’aspetto – per un immigrato), famiglie disarticolate, vite svuotate dalla routine o proiettate in un luminoso quanto fantomatico futuro socialista (non è caduto il muro di Berlino e in Occidente molti si fanno ancora illusioni sul paradiso al di là della Cortina di ferro). L’io narrante attraversa col suo fido commissario questa umanità dolente e cerca di dare un senso alla sua esistenza di sradicato a cui il figlio in arrivo – la cui sorte però è nelle mani della sua Gitte – sembra dare una nuova speranza: e la sua corazza di cinico tutto sommato romantico e idealista (alla Philip Marlowe) riemerge nel finale quando, pur potendo dare in pasto alla stampa una succulenta storia di sesso deviato e sangue, preferisce soprassedere per evitare alla giovane paralitica Kirsten il colpo di grazia.

Ma proprio il finale è deludente: il lettore infatti rimane disorientato dalla grigia normalità delle stentate spiegazioni biascicate dai detective che, in fin dei conti, spiegano ben poco. Qualcuno potrebbe dire: come accade nella realtà. Ma Turèll ha costruito un romanzo dove alcune suggestioni iniziali illudono il lettore di trovarsi di fronte a un ingegnoso piano criminale degno di un classico mystery, mentre lo scioglimento strizza un po’ troppo l’occhio al noir contemporaneo privo di certezze.

D’altra parte il romanzo d’inchiesta del Grande Nord non si è mai segnalato in genere per la brillante e intrigante inverosimiglianza degli intrecci: come il grande Simenon gli autori scandinavi hanno invece sempre preferito le infinite tonalità di grigio di un mondo criminale – che ruota attorno ai moventi eterni del denaro e del sesso – e di un lavoro di polizia che è, soprattutto, lavoro di squadra e consumo di suole di scarpe.

Turèll non smentisce – anzi, caso mai anticipa – questa tendenza: con l’attenuante semmai di superare di poco le 200 pagine e di non tradire troppo la volontà di parlare di sé e del suo tempo celandosi dietro il fragile paravento di una banale storia di amore e morte.

Voto: 6