Brutto mestiere quello dell’autore esordiente.

Uno ci mette anni a costruirsi una reputazione nella sua professione e poi, ecco, l’assale l’impulso di consegnare ai contemporanei e ai posteri il distillato delle sue fervide galoppate nelle sterminate praterie della fantasia; ma, come è noto, tutto (o quasi) è già stato scritto, e così l’abilità del narratore sta nell’utilizzare i soliti, eterni ingredienti in modo originale affinché il lettore dimentichi per un attimo che sta assaporando la solita vecchia storia.

Ebbene, nonostante il favore riscosso in patria e – sembra – anche all’estero, l’opera prima dello svedese Jan Wallentin mostra in modo persino imbarazzante la mancanza di quell’impronta originale – su materiali tutt’altro che inediti – che si richiede allo scrittore di razza; e l’improvvido accostamento, nella terza di copertina, a Dan Brown non costituisce affatto una referenza, bensì una inappellabile condanna.

Sì, perché anche il vituperatissimo e vendutissimo autore del Codice da Vinci è, a suo modo, un classico: non è così semplice infatti assemblare con sovrano sprezzo del ridicolo materiali così eterogenei e montarli su una oliatissima macchina narrativa al punto di tenere incollato alle centinaia e centinaia di pagine anche il lettore non sprovveduto. E Wallentin, pur applicandosi, quest’arte la conosce ben poco.

Anche in questo romanzo c’è infatti un’antica leggenda che sconfina nel paranormale: una stella e una croce che possiedono poteri straordinari; ma l’intrigo appare un po’ troppo nebuloso e troppi nodi alla fine non vengono sciolti. E anche qui abbiamo una sorta di Santo Graal oggetto di una strenua ricerca: la stella e la croce, appunto, che però transitano assai disinvoltamente dai deserti asiatici alle gelide distese dell’artico per finire la prima in bocca a un morto nel carnaio di Ypres durante la Prima Guerra Mondiale e la seconda su di un cadavere rinvenuto miracolosamente intatto dopo decenni in una miniera allagata della Svezia.

Basterebbero già questi indizi a insospettire anche il più bendisposto dei lettori, ma il nostro Wallentin non si (e ci) fa mancare nulla anche nel ristretto gruppo dei protagonisti: Don Titelman, di origine ebraica, in gioventù medico, poi diventato storico di antiche leggende, è in avanzato stato di tossicodipendenza da tranquillanti; sua sorella Sarah, detta Exe, è pericolosamente affine, nella sua asocialità e nell’abilità a crackare i sistemi informatici di mezzo mondo, all’icona del thriller svedese, Lisbeth Salander; l’enigmatica Eva Strand è un avvocato che non dimostra gli anni che ha e non è (del tutto) quel che sembra; la giovane e incantevole italiana, Elena Duomi, è una sensitiva strappata alla sua famiglia d’origine da bambina nonché esperta nel corpo a corpo e nell’uso delle armi.

E se tutto ciò non bastasse, ecco, ad arricchire il menu, in ordine sparso: melliflui e inquietanti emissari tedeschi; esotici e misteriosi imprenditori argentini; una tenebrosa Fondazione che ha fatto affari con tutti, persino coi nazisti di Himmler; il nipote del famoso drammaturgo svedese Strindberg che, con le sue ricerche della stella dà il via al mistero e fornisce il titolo al volume; vagoni merci arredati come una carrozza dell’“Orient Express” ed erranti per le ferrovie di mezza Europa grazie a software facilmente violati; una spartana nave rompighiaccio della flotta ex sovietica e un letale sottomarino della marina tedesca lanciato al suo inseguimento.

Per padroneggiare ingredienti così vari e speziati, perdipiù ancorati a un intreccio che inizia come un giallo, si dipana come una spy story e termina come un romanzo a metà tra fantastico e fantascienza, ci sarebbe voluta una tempra di narratore ben più robusta di quella di Wallentin che invece, da bravo esordiente, non sembra decidersi a quale modello letterario far riferimento e così coniuga confusamente Dan Brown con Stieg Larsson, atmosfere alla Verne con incubi alla Poe senza ottenere una credibile miscela narrativa.

E il flop ci rattrista particolarmente perché ricade su una casa editrice e su una collana che da anni sta facendo molto per diffondere anche nelle nostre calde e assolate latitudini il gelido noir scandinavo e in special modo quello svedese; ma forse si sta verificando quel temuto fenomeno di saturazione già sperimentato a suo tempo in Italia con l’invasione di decine di giallisti ispanofoni sbarcati in massa e con pochi filtri al seguito delle fortune del compianto Vázquez Montalbán.

E allora – come è avvenuto già da tempo per i nostri cugini mediterranei – è forse venuto il momento di puntare esclusivamente su autori capaci e affermati, lasciando gli esordienti, ancorché baciati da un successo per noi inspiegabile, al loro triste destino.

Voto: 3