La settima stagione

Era una delle operazioni più delicate che mi fossero state affidate.

Non si trattava di rintracciare un’opera rubata, ma di capire cosa agitasse così tanto il mercato antiquario. Tempo prima c’era stato il ritrovamento di una tela di Caravaggio, ma la febbre dell’acquisto era continuata: gli antiquari avevano occhi e tasche soltanto per le tele fiamminghe della fine del Cinquecento. Misi in moto i miei informatori romani, difficili da trovare in quel mondo esclusivo e benestante. Non erano certo persone che si potevano comprare col denaro: ne circolava sempre molto e quello era un ambiente chiuso, una vera e propria setta. Tutti pronti a farsi sgambetti con qualsiasi mezzo, lecito e illecito, senza mai tradirsi, consapevoli che il discredito su uno di loro si sarebbe ripercosso su tutto il mercato. I venditori sarebbero stati più cauti e timorosi, i compratori molto più diffidenti, e questo nella loro logica non era bene. Il mercato ha le sue regole ferree, soprattutto quelle non scritte. 

In quel caso, tutte le bocche erano cucite, un muro impenetrabile di segretezza. Ero arrivato a minacciare un antiquario per i forti dubbi sulla provenienza di una statua lignea di Madonna, ma non era servito a niente. Il personaggio in questione mi aveva fatto sapere indirettamente che il pezzo era destinato ad una persona che mi avrebbe potuto mettere a posto se avessi ostacolato il trasferimento. Sì, aveva usato proprio l’espressione “mettere a posto”.

Quindi ero dovuto ricorrere ad un altro contatto: un falsario d’autore che avevo soprannominato Turner perché di origine inglese e in omaggio al suo pittore preferito.

Era un buon pittore che non aveva avuto fortuna con le sue opere e per questo si era dedicato alle copie. Aveva ordinazioni da tutto il mondo. I Van Gogh andavano molto sul mercato giapponese, la pittura del Cinquecento o Seicento su quello americano. I ricchi texani o californiani pensavano che un’opera, più vecchia era e più aveva valore, anche se si trattava di copie. Si poteva spaziare da un frammento di affresco similpompeiano a una Madonna di Raffaello, da un Renoir a un Watteau: tutto andava bene, per esibirsi in società. Epoche storiche e personaggi si mescolavano in una melassa informe, inodore e insapore. A volte Turner si divertiva a mettere il suo vero nome latinizzato in qualche punto del quadro. Accanto a quest’attività lecita, ne esercitava un’altra che conoscevamo soltanto io e lui. Dipingeva con grande perizia “variazioni sul tema”. Prendeva spunto da un tema pittorico molto in voga in una certa epoca come le nature morte, i vasi di fiori, i ritratti “naturalistici” dell’Arcimboldo, e ci metteva il suo personale tocco d’artista: variazioni quasi impercettibili ad un occhio non attento. Un frutto al posto di un altro, un fiore di colore diverso, un gioiello in più, una decorazione nuova del vasellame.

L’attività era molto remunerativa perché piazzava i suoi quadri sul mercato antiquario spacciandoli per dipinti originali della scuola del pittore imitato. Di dimensioni ridotte, le nature morte erano soggetti facilmente trasportabili e occultabili.

Avevo conosciuto Turner anni prima, durante l’operazione “Natura morta”. Anche allora avevamo notato l’incremento delle vendite delle nature morte, tutte regolarmente certificate. Non capivamo da dove provenissero. Se fossero state tutte originali – ci eravamo detti –, prima o poi si sarebbe saputo dove erano state rubate o scoperte casualmente. Invece niente.

Dopo mesi d’appostamenti e intercettazioni, grazie ad un collega tedesco che si era infiltrato nell’organizzazione fingendosi compratore, si riuscì a scoprire il geniale falsario. Presto fra noi nacque un’intesa tacita: non gli avremmo impedito di continuare a svolgere la sua attività “a latere” di quella ufficiale purché ci fornisse informazioni, indispensabili per muoversi in quell’ambiente impenetrabile. Ovviamente sapeva i rischi che correva, perciò era molto cauto.

Col tempo s’instaurò con lui una sorta di collaborazione e di confidenza. Mi piaceva, di tanto in tanto, andare a Milano nel suo studio e vederlo lavorare, non sui moderni, ma proprio sulle imitazioni delle tele del Cinquecento e Seicento. Aveva un talento particolare per la stesura del colore. Riusciva ad ottenere una brillantezza e una luminosità inconsuete nei pittori moderni. Il nostro accordo era molto semplice: ogni volta che produceva un falso da immettere sul mercato come originale, doveva farmelo avere per alcuni giorni in modo che ne potessi studiare le caratteristiche. Tenevo una sorta di elenco segreto in cui annotavo via via le opere sospette che entravano nel mercato antiquario, sia di Turner sia di provenienza sconosciuta. In questo modo riuscivo a monitorare, in parte, gli scambi “clandestini”. Per lo più erano opere di dimensioni ridotte, che Turner mi lasciava in un armadietto della stazione Porta Garibaldi di Milano di cui entrambi avevamo la chiave. In questo modo non c’incontravamo mai.

Un mese prima del nostro incontro, io stesso ero stato il committente di una copia “con variazioni” di una natura morta fiamminga del Seicento. Ci eravamo accordati per una sorta di trompe l’oeil alla maniera di Flegel: un mobile a mensole su cui erano collocati oggetti di uso comune insieme a frutti e fiori. Speravo che quell’immissione sul mercato clandestino provocasse una reazione a catena in modo che qualcuno o qualcosa uscisse allo scoperto. Insomma, un’onda in quel mare in burrasca che lasciasse una traccia sulla battigia. Qualcosa, effettivamente, si era mosso prima di quanto mi aspettassi: Turner aveva chiesto di vedermi in treno e consegnarmi direttamente una tela. Me lo aveva comunicato poco prima per lettera facendomi capire che era un’operazione delicata e che non se la sentiva di seguire la modalità consueta.

L’appuntamento era stato fissato sull’Intercity Milano-Roma. Turner sarebbe salito a Milano, io ad Arezzo. Avrebbe portato con sé un cilindro nero, come quelli usati dagli studenti per custodire i disegni. Lo avrebbe lasciato sul portabagagli del treno, sopra il sedile. Se non fosse stato strettamente necessario, non avremmo parlato; l’importante era vedersi. Avevo fatto io le prenotazioni in modo da trovare due posti vicini e gli avevo spedito il biglietto. Il posto accanto a lui era occupato da un giovane con i capelli lunghi e biondi, una bella fisionomia rinascimentale. Accanto a me, una signora che leggeva una rivista di gossip con un’attenzione spropositata, considerata la profondità degli argomenti.

Lui era lì, come stabilito, nel posto di fronte al mio. Il cilindro era sistemato nel portabagagli. Stava sfogliando una pubblicazione su Peter Bruegel il Vecchio. Dopo un po’, si alzò e lasciò la rivista aperta sulle pagine che riproducevano I mietitori e Il ritorno della mandria.

Cosa mi voleva dire? Stava per essere immesso sul mercato un falso Bruegel?

Turner non ritornava e allungai la mano per vedere cosa leggeva. Il giovane rinascimentale allungò lo sguardo. “Le Stagioni risalgono al 1565. Entrato nelle raccolte praghesi dell’imperatore Rodolfo II e disperso con il saccheggio di Praga della guerra dei Trent’anni, il ciclo pittorico è oggi solo parzialmente ricostruibile; doveva probabilmente raccogliere sei tavole, forse dedicate alle coppie dei mesi climaticamente analoghi, ma ne rimangono cinque…”.

Il pittore era tornato al suo posto e mi rivolse la parola: «S’interessa di arte?».

«Un po’». Dopo una pausa, fece un discorso che allora non capii: «La vita di certi capolavori è attraversata dal mistero. Assomigliano al corso dei fiumi carsici, qualche volta s’inabissano per riaffiorare alla superficie anni o secoli dopo. Qualche volta, invece, si perdono nel flusso della storia».

Dunque si trattava di un Bruegel. Che io sapessi, non c’era stato negli ultimi mesi nessun ritrovamento di pittura fiamminga. Scendemmo a Roma e ci salutammo come due estranei che hanno scambiato cortesemente qualche parola durante il viaggio. Tornai in ufficio e feci appena in tempo ad appoggiare il cilindro con la pittura che arrivò il colonnello.

«Ah, finalmente sei qui. Ho appena telefonato al magistrato per dirgli che abbiamo eseguito tutte le misure cautelari per l’operazione Magna Grecia. L’ho già informato anche del recupero della statua ellenistica. Solo gli esecutori materiali sono una decina e li deve interrogare subito. Vuole che si partecipi agli interrogatori, perciò bisogna che venga subito». Avrei ripreso più tardi la ricerca delle opere scomparse.

Avevo guardato fra le schede delle opere rubate e non avevo trovato niente. Unica eccezione, ma non avevo certezze perché la notizia non era ufficiale, il furto commesso in una villa situata in una località imprecisata della Repubblica Ceca, dalla quale erano state asportate alcune opere fra cui alcune nature morte fiamminghe. Che una di esse fosse attribuibile a un Bruegel? Passare attraverso la polizia ceca sarebbe stato troppo lungo e complicato. Decisi di consegnare al più presto ad un antiquario di fiducia il falso che avevo commissionato a Turner, poi sarei rimasto a vedere cosa succedeva. Mi ricordai che l’avevo lasciato in ufficio.

L’aprii e fu una sorpresa. Non c’era la natura morta che gli avevo commissionato, bensì un paesaggio campestre di scuola fiamminga. Il pensiero mi andò alle Stagioni di Bruegel di cui Turner leggeva in treno. Tre erano a Vienna: Giornata buia, Cacciatori nella neve e Ritorno della mandria. A Praga c’era la Fienagione e a New York I mietitori, che non avevo mai visto.

Stavo guardando la composizione quando ricevetti la telefonata di De Santis, del Nucleo Investigativo di Milano. Mi avvertiva che un falsario d’arte era stato trovato morto nel suo studio. Dall’indirizzo, ebbi la certezza che fosse proprio il mio informatore. Fui preso da un senso di profonda frustrazione, convinto com’ero di aver contribuito a far saltare la “copertura” e quindi a farlo ammazzare.

M’informai sulle caratteristiche dell’omicidio. La porta d’ingresso non era stata forzata; la vittima conosceva il suo assassino. Nello studio c’erano segni di colluttazione. Tutto rovesciato a terra, la cassaforte aperta e svuotata. I quadri terminati erano stati estratti dalle cornici e buttati a terra, non si capiva se in segno di estremo insulto o perché l’assassino avesse cercato qualcosa proprio nel quadro. Anche le tele non terminate erano rovesciate sul pavimento dalla parte interna. Sembrava che tutto questo non potesse essere l’opera di una sola persona, a meno che la confusione non fosse stata creata ad arte per simulare un furto. In fondo, Turner era ancora abbastanza giovane e, all’apparenza, in forma.

«È… era un mio contatto. Vorrei venire di persona prima che rimuoviate il corpo. Prendo il primo aereo».

«Parti pure, ma lo sai che non possiamo aspettare!».

«E tu temporeggia, inventati qualcosa… È importante che io venga sul posto! Potrei vedere cose importanti, per voi sicuramente prive di significato…».

«Hai un bel coraggio, prima chiedi un favore e poi ci dai anche degli incapaci! Se fra tre ore non sei qui, procedo». Un colpo secco e aveva riattaccato.

Nonostante la minaccia di sciopero, saltai su un aereo e arrivai prima dello scadere dell’ultimatum del collega. Appena mi vide, la sua faccia si piegò in una smorfia di contrarietà.

«Ecco Sgarbi due». Odioso. Contai fino a dieci per non mollargli un cazzotto davanti a tutti. Avevo bisogno di dare un’occhiata a modo mio e dovevo essere conciliante, mi sarei rifatto un’altra volta, col pallone gonfiato.

«Mi dispiace se ti sei offeso, però ora piantala. Conoscevo l’uomo, lo sai. Posso entrare o devo chiederti il permesso?». E tanto per fargli capire che me ne sbattevo di lui, entrai.

Mi misi un paio di guanti e cominciai a raddrizzare i quadri.

Arrivò De Santis, inferocito: «Che diavolo fai, alteri la scena del delitto?».

«I fotografi hanno già fatto i rilievi, no?».

«I fotografi sì, ma quelli del RIS non li ho ancora avvisati».

«Va bene, fai entrare gli scienziati. Io faccio il giro dell’appartamento».

La camera era in ordine. Così pure la cucina e il salone. In ultimo andai nel bagno. Lì c’era stata battaglia. La serratura era spaccata e la sagoma del corpo era disegnata sul pavimento. Stavo andandomene quando, con la coda dell’occhio, colsi una traccia opaca sullo specchio, in basso. Mi avvicinai. Con un dito intinto nel sapone liquido, Turner aveva scritto una parola: Metsys.

A chi era destinato quel messaggio sullo specchio? Ritornai nello studio e non informai il collega sul rinvenimento delle lettere nel bagno. Se ne sarebbero accorti, ma io volevo avere un piccolo vantaggio. Qualcosa mi diceva che era un messaggio per me. A terra c’era una copia non ancora finita del Cambiavalute e sua moglie di Metsys; un po’ più lontano, Marta e Maddalena. Sembrava perfetto, appena uscito dalla mano del Caravaggio. Maddalena, riccamente vestita alla foggia cinquecentesca, ha in mano un piccolo fiore d’arancio e con l’altra regge un grande specchio ovale che non ritrae nessuna figura, ma una fonte di luce che proveniva dall’alto. Il simbolismo religioso è molto evidente.

L’unica non gettata a terra era una piccola tela di un autore sicuramente fiammingo che non conoscevo. Non doveva essere dei maggiori. Era un soggetto sacro, certamente devozionale. Per quanto potevo vedere con una semplice lente d’ingrandimento, c’era una scritta latina vicino allo stemma della famiglia che doveva aver commissionato l’opera. La figura centrale era quella del Cristo in un interno di una stanza riccamente arredata. Anche qui, uno specchio al lato del Cristo che rifletteva due piccole figure maschili poste fuori del campo visivo. Erano giochetti che ai pittori dell’epoca piacevano molto perché proprio fra il Quattrocento e Cinquecento avevano cominciato ad usare una sorta di camera per la rifrazione della luce.

Sembrava un dipinto piuttosto arcaico, rispetto agli altri due. I piani scanditi dalla volumetria della figura, dalla finestra aperta si scorgeva uno sfondo di paesaggio, una sorta di fondale teatrale, che sembrava derivare da modelli italiani.

Feci fare le foto “a mosaico” delle tele, sia davanti sia dietro. In passato i pittori, per non sprecare il materiale, utilizzavano dall’altro lato tele già utilizzate per prove non ben riuscite. Avevo visto molti esperti delle Sovrintendenze osservare il retro della tela ancora prima del dipinto. Ritornai al dipinto del Cambiavalute e sua moglie.

Delle due figure aveva appena disegnato i contorni, ma gli oggetti in primo piano e sullo sfondo erano finiti.

Chi avrebbe potuto commissionare un’opera così conosciuta? Solo un acquirente che voleva deliberatamente mettere in casa un falso. In questo caso sarebbe stato identico in tutto e per tutto all’originale.

Osservai i libri sulla scaffalatura dietro ai due personaggi. Sul libro dalla rilegatura chiara, disegnato dalla parte della costola, c’era una minuscola scritta. Non riuscii a leggere, ma se c’era davvero scritto qualcosa di leggibile, ci si poteva arrivare con una lente molto potente. Osservai i piccoli oggetti sul tavolo del cambiavalute: le perle, gli anelli, le monete, la bilancina e infine lo specchio rotondo da cui s’intravedeva una finestra dai vetri superiori decorati, il paesaggio urbano al di fuori e un uomo con il cappello rosso che leggeva. Si diceva che fosse l’autoritratto di Metsys.

Mi accorsi che stavo elencando quegli elementi sulla base della mia memoria. Qui, invece, c’era un qualcosa di impercettibilmente diverso. L’uomo ritratto nello specchio con i capelli lunghi e ricci non stava leggendo, ma guardava verso lo spettatore. Lo specchio rivelava una realtà non percepita da chi guardava frontalmente l’opera. Sul retro della tela, in basso a destra, c’era scritto qualcosa. Numeri.

«Vorrei un ingrandimento sul particolare dello specchio ed uno sulla serie numerica sul retro. Quando saranno pronti?».

«Fra un’ora. Li lascio nell’ufficio di De Santis».

Cercai di trovare un nesso fra le opere a cui Turner stava lavorando, poteva essere importante per l’indagine. Ne trovai due: erano tutte opere del Cinquecento e tutte avevano all’interno uno specchio. «Può essere casuale. Lui dipingeva quello che gli veniva commissionato». Stavo riflettendo a voce alta. La mia brillante riflessione non mi aveva portato da nessuna parte, dal punto di vista dell’inchiesta.

Non so per quale connessione di idee, mi venne in mente la natura morta che gli avevo commissionato. Non era nello studio, dov’era andata a finire?

Mi ero ben guardato dal raccontare a De Santis dei nostri accordi, tanto più che Turner era morto. Andai al deposito di Porta Garibaldi e trovai nel solito armadietto una valigia rigida, leggerissima. La presi, poi passai dal Nucleo per ritirare le foto del quadro. Durante il viaggio in treno le guardai. “Chissà se a De Santis è venuta l’idea di far ingrandire quella faccia dipinta nello specchio. Sarà pazzesco, ma ho la sensazione di averla già vista”. Questa volta la riflessione fu silenziosa.

Arrivato a Roma, corsi in ufficio e finalmente aprii la valigia. Estrassi la tela avvolta in un panno e rimasi ammirato: era la natura morta. I colori traslucidi e brillanti della frutta e dei fiori si stagliavano contro l’oscurità dello sfondo. Gli oggetti in vetro riflettevano la luce che proveniva da sinistra. Non so se Turner stendesse il colore in più velature successive secondo la tecnica di Van Eyck, fatto sta che l’effetto era stupefacente. Sapevo che era un falso, pur bellissimo, e avrei dovuto distruggerlo. Stavo combattendo dentro di me con il desiderio di tenerlo, magari non appeso in una stanza visibile a tutti: potevo metterlo in camera di letto, vicino al falso Bruegel, ancora ripiegato nel suo involucro…

In fondo Turner era morto e io ne ero stato il committente. Nessuno, a parte i colleghi, l’avrebbe saputo.

Alla fine del turno ritornai a casa. Ero sicuro di aver dato quattro mandate alla porta blindata e invece alla prima si aprì. Entrai con cautela, con la Beretta in mano. Mi faceva un certo effetto irrompere armato in casa mia.

C’era il caos, come nello studio milanese di Turner. Qualcuno aveva rovistato sotto i cuscini dei divani, staccato i quadri più grandi e rotto le cornici. Mi precipitai in camera, aprii il cassetto dove avevo appoggiato il cilindro con la tela, sotto alle camicie. Fortunatamente non c’erano arrivati. Al resto avrei pensato dopo.

Chiamai un collega che venisse con l’auto di servizio e l’aspettai con una valigetta portadocumenti dove avevo messo le due tele. Una misura precauzionale, i miei “visitatori” potevano essere ancora nei paraggi. In ufficio osservai con attenzione le foto che mi ero fatto fare a Milano, anche quella con la serie numerica dietro alla tela di Metsys.

La serie era scritta a caratteri digitali.

Non era una data né il numero di serie dei falsi di Turner: non poteva averne fatti così tanti. E poi, perché li aveva scritti nei modernissimi caratteri digitali?

Il tema degli specchi non era stato scelto per caso. Presi la foto con la serie numerica e la misi davanti allo specchio del bagno. Era un gioco che faceva la mia nipotina. Mi scriveva delle parole con i numeri digitali ed io le dovevo leggere senza l’aiuto dello specchio. Ma ora non c’era tempo da perdere.

Allo specchio quei numeri si trasformarono in lettere.

PB is O. Peter Bruegel is original!

Quasi mi tremavano le mani, nell’aprire la valigetta e tirare fuori l’imballaggio.

Squillò il telefono: era De Santis. «Sai chi è l’uomo nello specchio della pittura? Il rappresentante di una famosa casa d’aste di Milano. Il tuo contatto deve aver fatto il doppio gioco su un pezzo importante e gliel’hanno fatta pagare».

«Ecco chi era l’uomo del treno!».

Ormai avevo capito. Liberai la tela avvolta nella sua protezione di stracci e cartapecora, tutto vecchio di secoli. La composizione era giocata sulle sfumature del verde e dell’azzurro, luminosi e translucidi. Era una scena di campagna in primavera, una primavera di quasi cinque secoli fa. Una moltitudine di bambini giocava sui prati e vicino allo stagno con cerchi, palle, fionde, corde: chi faceva il girotondo, chi saltava la cavallina, chi cercava di strappare la cuffietta ad una bambina che si girava indispettita, chi spingeva il compagno di giochi nell’acqua. Non era rappresentato neanche un adulto. Il tema era quello dell’infanzia, in analogia con la primavera della vita.

Guardai la tela in ogni minimo particolare, poi chiusi gli occhi: l’emozione di avere in mano quell’opera mi toglieva quasi il respiro. Era l’originale della Primavera, la settima stagione di Bruegel il Vecchio scomparsa da secoli e poi tornata alla luce, chissà per quali vie. Ma questo non l’avrei mai saputo.