Post Mortem, bocce ferme, finiti i giochi, chiusi gli occhi, tempo di lasciare questa valle di lacrime, l’ora delle autopsie, delle sepolture, a vedere le margherite crescere dalla parte delle radici…

Pablo Larràin firma, dopo Tony Manero (vedi…), un’altra opera destinata a rimanere.

La storia con la “s” minuscola, l’amore di un perfetto signor nessuno, tale Mario Cornejo (Alfredo Castro), per  Nancy (Antonia Zegers), vicina di casa ballerina di scarso successo (e che del vicino innamorato non sa che farsene…), mescolata con un'altra Storia, quella che ebbe inizio l’11 settembre 1973, giorno in cui il Cile precipitò dalla democrazia alla dittatura con il rovesciamento di Salvator Allende da parte di Pinochet.

I due piani del racconto ora si incrociano ora si elidono convergendo nella figura di Mario, che incaricato di redigere a macchina i risultati delle autopsie, non vuole (oppure non riesce…) ad accorgersi della mattanza che monta tutt’attorno, delle montagne di cadaveri (letteralmente…) che iniziano ad intasare l’obitorio dove continua il suo lavoro come se nulla fosse, un Caronte anni ’70 che scarica i cadaveri dai camion militari per trascinarli su un carrettino lungo sotterranei che sembrano l’anticamera dell’inferno per poi fissarne su carta il motivo del definitivo passaggio nell’Aldilà e che perfino la convocazione per l’autopsia del deposto Salvador Allende non scuote più di tanto (mentre sconvolge il medico incaricato e la sua assistente…).

Post Mortem è una lenta e allucinante discesa agli inferi, un lento strisciare verso il buio dove però c’è luce sufficiente per scorgere le cose basilari, attività come sopravvivere, piangere, soffrire, morire, con la stessa cinepresa che diventa carne e condimento della storia indicando attraverso il suo lavoro, qualcosa che va al di là di un semplice punto di vista ottico (cosa che molti sanno fare…), a favore di qualcosa che somiglia molto di più ad un punto di vista vero e proprio, cioè uno sguardo che se anche non contempla al suo interno un giudizio, magari morale, almeno si interroga su una vicenda, l’avvento della dittatura di Pinochet, che scosse le fondamenta di un’intera società, perché altrimenti non si spiegherebbe cosa significhi la prima scena che apre il film, con la cinepresa piazzata sotto la pancia di un blindato che avanza su una via disseminata di pietre,  perfetta messa in scena di una violenza bruta che schiaccia con la forza libertà ed ideali.

Post Mortem è un film che trova la sua riuscita nel suo aspetto dimesso, nei suoi luoghi oscuri, nella sua fotografia sgranata (un 16 MM riversato a 35), nei dialoghi laconici, nella colonna sonora fatta esclusivamente di rumori, nel suo disegnare un ritratto di vita minima in un universo che pare conoscere solo cadaveri, una vita minima che crede che sia possibile scambiare l’orrore con l’amore salvo poi, di fronte alla delusione, diventare essa stessa messaggera di morte riprendendosi indietro quell’orrore che voleva tenere lontano semplicemente trasformandolo da collettivo in privato, il che da un punto di vista cinematografico significa anche saper giocare coi generi sostituendo prima ad un “horror”, con fortissime componenti storiche (ovviamente…) un melodramma, per poi tornare di nuovo all’horror.

La solidissima messa in scena di Post Mortem, come già accadeva in Tony Manero, ha in sé il potere assoluto, pur nella sua crudezza estrema, di non apparire mai gratuita, messa là per épater le bourgeois perché portatrice di una coerenza narrativa ed estetica estremamente riuscita.

Ecco quindi che una serie pressoché ininterrotta di scene ora agghiaccianti (il medico militare che di fronte alla crisi isterica di una dottoressa prima spara un colpo in aria e poi una raffica di colpi verso i cadaveri ammucchiati ovunque…), ora strazianti come il pianto di Nancy e Mario (“Prima lei piange da sola, poi Mario piange per lei e poi piange per se stesso. Infine piangono insieme”, Post Mortem, intervista a Pablo Larrain, Antonia Zegers e Alfredo Castro, TaxiDrivers, n. 23, pag. 15), si danno il cambio senza sforzo, fino a sfociare in un finale amarissimo ed implacabile che nel suo “accumulo di oggetti” sigilla definitivamente da un lato una vita di speranza (quella di Antonio), e dall’altro le speranze di una vita (non diremo pero di chi…).

Ecco, forse “implacabile” è un aggettivo che meglio di altri segnala ciò che si muove all’interno del cinema di Pablo Larràin.

In concorso alla 67ma Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.