Nessun film può dirsi riuscito se privo di due caratteristiche fondamentali: la prima rimanda alla vertigine, la seconda all’ossessione… 

La citazione potrebbe anche essere apocrifa (in effetti lo è…), ma Tony Manero del cileno Pablo Larraín sembra fatto apposta per confermarla. Non soltanto possiede entrambe le caratteristiche, ma in più riesce miracolosamente a fonderle come poche altre volte s’è visto (e sì che ne abbiamo visti di film, belli, brutti, dimenticabili, indimenticabili…).

L’ossessione è esattamente là dove ti aspetti che sia, nella vita cioè di un povero cristo nel Cile schiacciato dalla dittatura militare di Pinochet, un povero cristo che nella finzione fa di nome Raúl Peralta e che sempre nella finzione ammazza per vivere e vive per ammazzare (e quando non ammazza, se necessario, defeca sui vestiti altrui…). Tutto questo ammazzare e defecare solo e soltanto per partecipare ad un concorso televisivo bandito per scovare il sosia di Tony Manero, quel Tony Manero che nel lontano 1977 esplose, grazie a John Travolta, sugli schermi di tutto il mondo grazie all’ormai famosa La febbre del sabato sera.

L’ossessione, spinta all’eccesso, è una bolla che ingloba in un unico spazio spettatore e attore, il fan e il suo mito di celluloide, fino a cancellarne le distanze, fino a farne una cosa sola. Ecco così Raúl diventare un clone di Travolta, imitarne i passi di danza, le movenze, la pettinatura, gli abiti, persino la pedana dove balla, in una identificazione sempre più spinta e che arriva a confinare una vita intera all’interno di una fantasia.

La vertigine al contrario rimanda ad una profondità che fa paura, che suscita stordimento. Così, storditi come poche altre volte, assistiamo allo sprofondare di Raúl in un abisso foderato di ferocia e impotenza, meschinità e squallore, una voragine dove di riflesso (e anche se è solo un riflesso è capace di tramortire…), scorgiamo una società intera soffocata da una cappa di piombo che deriva direttamente dalla precarietà del vivere sotto un’implacabile dittatura militare e che Larraín sa rendere con pochi ma efficacissimi cenni (due squadre di poliziotti in borghese, una camionetta dell’esercito…), riuscendo a fare in modo che non la si dimentichi mai.

Tony Manero è uno di quei rari film che bucano gli occhi con la loro lucida disperazione e la loro lancinante bellezza, uno di quei film portatori di “uno sguardo” che giunge dove altri film non riescono ad arrivare perché Larraín sa perfettamente in ogni istante quanto sia pericoloso un mito per tutti coloro che vi si avvicinano senza le dovute precauzioni.

Tony Manero è lo spietato ritratto di un “perdente” nel senso più profondo del termine, un perdente che come ogni perdente che si rispetti coltiva un sogno che soltanto lui si illude che non sia perdente, una figura, quella di Raúl che una regia da “squadra catturandi” bracca dalla prima all’ultima scena mai complice e sempre testimone.

Per un film così ci voleva un attore di un certo tipo oppure nisba. Larraín, beato lui, lo ha trovato nell’ineffabile Alfredo Castro: una somiglianza straniante con l’Al Pacino di dieci anni fa capace di attraversare il film come una scheggia impazzita ma solo per il mondo esterno perché di suo non nutre il minimo dubbio su quello che va fatto, un ruolo il suo certo non facile e dal quale molti sarebbero fuggiti inorriditi.

Impossibile preferire una scena ad un’altra o considerarne una come più rappresentativa. Però ci proviamo lo stesso, non fosse altro che per dimostrare come di fronte all’ossessione e alla vertigine un minimo di senso critico lo si è comunque conservato. Ci buttiamo allora su quella che vede Raúl giungere al cinema dove si proietta La febbre del sabato sera solo per accorgersi che il film è stato smontato e che al suo posto c’è un altro film “con lo stesso signore” (dice la cassiera…). Il film è Grease – Brillantina e ciò che scatena in Raúl non si può raccontare…

Ma che volete che rappresenti una scena così all’interno di un film che di scene del genere ne conta a bizzeffe? Nulla. Nulla per il film, s’intende, molto, moltissimo per noi…

Forse già il miglior film del 2009…

Presentato alla 40ma "Quinzaine des Realisateurs" (Cannes, 2008). Premio come miglior film, regia, attore e premio Fipresci al 26mo Torino Film Festival.