Fra i più bei film della dodicesima edizione del FEFF di Udine, il cinese Wheat di He Ping si presenta come un film di guerra apparentemente all’insegna della liminalità, perché incentrato su eventi posti al margine del conflitto in corso. Siamo nel 260 avanti Cristo, periodo degli Stati Combattenti; la battaglia di Changping segna la sconfitta dello stato di Zhao da parte dello stato di Qin. In quest’occasione 500.000 soldati vengono trucidati dagli uomini del futuro primo imperatore della Cina, che unificherà il paese sotto la dinastia Qin. Prendendo come sfondo questo evento sanguinoso, il regista decide di effettuare uno doppio scarto narrativo: da un lato, allontana lo spettatore dalla battaglia focalizzando l’attenzione su due disertori dell’esercito Qin, il valoroso Xia (Jue Huang) e l’imbranato chiacchierone Zhe (Du Jiayi), nella loro fuga verso la vita semplice nei campi; dall’altro, sposta ulteriormente il punto focale degli eventi facendo finire i due soldati per sbaglio nel villaggio di Luyi, stato di Zhao, abitato unicamente da donne (e bambini piccoli) che attendono il ritorno dei propri mariti. I due uomini si ritrovano dunque catapultati in un mondo tutto al femminile, in cui il gioco delle parti viene subito rovesciato: nudi, addormentati e vulnerabili, i due soldati vengono scoperti da una folla di donne non più giovanissime che ridono, scherzano e meditano se torturarli o ucciderli (poiché, come dice una di loro, “adoro sentire gli uomini urlare di dolore”). Ma poi la tendenza materna e non belligerante prende il sopravvento e le donne decidono di portarli dalla sciamana, che insieme alla bella moglie del duca di Zhao (Wang Xueqi), Li (Fan Bing Bing) guida il villaggio. Scoperta una freccia Qin fra gli oggetti dei due uomini e convinte per questo di avere di fronte due soldati di Zhao, le donne esultano. Così, non appena svegliati, i due, soprattutto Xia, più abile nel conversare, dovranno inventarsi di colpo un resoconto della battaglia a favore di Zhao; poi, addormentatisi a suon di alcool, i due vengono di nuovo accerchiati dalle donne, coccolati e baciati come valorosi guerrieri di cui si può senza dubbio dire “mi piace l’odore d’alcool dei loro corpi”. L’atmosfera nel villaggio è estatica, come se i due uomini rappresentassero un bene prezioso e irrinunciabile, un talismano da proteggere e venerare. Alcune fra le sequenze più affascinanti del film riguardano proprio l’accerchiamento benevolo e materno (ma potenzialmente ostile) dei due soldati da parte del gruppo di donne: sono scene in cui la tradizionale equazione donna = debolezza e uomo = forza viene ribaltata ma in qualche modo anche scavalcata a favore di qualcosa di diverso, in cui l’aggressività può essere messa finalmente da parte, sostituita da una tenera chiassosità. Ma quanto può durare una menzogna così casualmente ma necessariamente congegnata? Alcuni banditi irrompono all’improvviso nel paese, e il loro capo dice a Li, signora di Zhao, che l’esercito è stato trucidato e che quindi lei e tutte le altre donne dovranno da questo momento in poi sottostare ai suoi voleri. Ed è qui che il lato più eroico e impavido delle donne prende il sopravvento: non solo Li non ha alcuna intenzione di cedere e dignitosamente non si inginocchia al nuovo arrivato, ma tutto il gruppo di donne decide all’unisono di imbracciare i forconi. Xia e Zhe, costretti a perpetrare la menzogna per non vedersi infilzare e buttare nella mischia di uomini ormai diventati tutti ostili per le loro “ospiti”, escono allo scoperto dichiarandosi soldati di Zhao. Ma purtroppo il capo dei banditi sa riconoscere un guerriero scelto dell’esercito Qin dalla sua arma, e si uccide in tributo al vincitore. Il dubbio inocula il proprio veleno nella mente di Li e di tutte le altre donne: i due soldati sono sinceri o hanno contribuito a trasformarci in vedove? E perché fra le vesti di Zhe e Xia si nasconde il pendente di Lord Ju Cong, marito di Li? Come interrogare il cielo con chiarezza senza lasciar travolgere la mente dalle nubi? Quella che doveva essere una convivenza pacifica all’insegna del lavoro sui campi si trasforma lentamente in una discesa nella follia e nella morte. “Ho chiesto a tutte le donne di uccidersi,” dichiara Li ormai preda della vendetta e cieca di fronte ai tentativi di riconciliazione da parte di Xia. “Diventerò un fantasma e perseguiterò gli uomini di Qin.” Ma forse il liquore del perdono riuscirà a instillare un po’ di calore nel suo cuore.

La seconda parte del film ribalta dunque completamente la situazione: l’atmosfera epica tipica di certi film di guerra viene infatti reinstaurata, soprattutto quando le donne scoprono la verità e uccidono senza pietà Zhe. Quell’universo femminile che sembrava così gioviale e cooperativo si rivela essere altrettanto spietato nel giustiziare i nemici e la propria controparte maschile. Un film che era partito come creatura liminale rispetto alla guerra la pone nuovamente al centro dell’attenzione attraverso delle donne che, forse più degli uomini ritratti nella storia, incarnano i valori militareschi del coraggio e dell’onore. La lezione maoista incentrata sulla completa parità fra i sessi (e quindi sulla cancellazione della differenza sessuale in termini iconografici ma soprattutto filosofici, sociali ed esistenziali) evidentemente ha ancora un forte ascendente sugli artisti cinesi, e fa capolino in questo caso nei momenti in cui il regista fa chiaramente leva sull’eroismo della popolazione cinese passata e indistinta, maschile o femminile che sia. Considerato che quasi nessun film mainlander contemporaneo esula dalla propaganda e dalla tipica tattica cinese della deviazione, che consiste nel mostrare il passato per lasciar intendere il presente (lo faceva anche Zhang Yimou in Lanterne Rosse, in quel caso per attaccare il potere, non certo per celebrarlo), letto sotto questa luce politica Wheat diventa un film che, se apparentemente vorrebbe criticare l’insensatezza della guerra e della violenza, ne recupera però i lati più accettabili da un punto di vista collettivo e nazionalista, quali il sacrificio di sé, l’immolazione a un ideale superiore di fedeltà (o semplicemente al re-marito-padre come padrone supremo), il coraggio di uccidere e di non arrendersi al nemico. Tutti valori tipicamente bellici che  hanno ben poco di sovversivo (e di femminile) e anzi reinstaurano una visione superiore della guerra che separa le persone solo per renderle più unite e forti nella morte: Li alla fine va stoicamente verso il campo di grano per andare a raggiungere il marito perché il senso dell’onore non può concederle altro e quelle spighe che la separano per sempre dal disertore Xia, che finalmente tornerà a casa a coltivare la terra anche se con l’amaro in bocca, diventano in ultimo un simbolo di inconciliabilità fra soldati di schieramenti opposti. Cos’è la bella Li infatti a questo punto se non un soldato scelto di Zhao, braccio destro del marito che in nome della lealtà non può che soccombere come l’uomo che ha servito per tutta la vita? Suddiviso in cinque parti, ciascuna scandita da un diverso elemento naturale (nell’ordine metallo/oro, legno, acqua, fuoco, terra), Wheat si apre e si chiude abbastanza prevedibilmente con un campo di grano, culla e insieme tomba che tutto sommerge. Un capitolo ulteriore e originale del soft power messo in atto dal governo cinese (e dall’industria culturale a esso assoggettata) per celebrare se stessi in patria e affascinare il resto del mondo.