Trascorrono quattro anni dall’ultimo Bond interpretato da Pierce Brosnan al primo di Daniel Craig. Malgrado il successo de La morte può attendere è ovvio che tiri aria di un forte cambiamento. Non solo: l’undici settembre, la guerra al terrorismo e la sua estensione in Iraq hanno cambiato la percezione dello spionaggio reale o immaginario nel grande pubblico. Il cinema d’azione sembra voler cancellare quella patina di “leggerezza” che si portava dietro dagli anni ’80 e che raggiunse l’apice nell’Era Moore, ma in qualche modo era rimasta sino agli ultimi 007.

Di fatto quasi tutti i vecchi volti della serie sono passati a miglior vita, lo spirito stesso che l’aveva accompagnata per tanti anni è cambiato. Probabilmente la produzione ha realizzato che il pubblico adolescenziale che negli anni ’90 seguiva i vari action movie basati sulla formula “effetti speciali + umorismo + superficialità” considera comunque Bond un personaggio “vecchio” appartenente all’immaginario di un’altra generazione che, al tempo stesso, si mostra sempre più scontenta delle nuove formule narrative.

Occorre un reboot, un nuovo inizio da cui far ricominciare la saga come se si trattasse del primo episodio.

          

È significativo che l’unico personaggio- interprete ritenuto adeguato per sopravvivere a questo cambiamento sia proprio M, interpretato da Judi Dench, ottima attrice e scelta, anni prima, per la casualità che volle Stella Regminton per breve tempo a capo dei servizi inglesi. La Regminton non lasciò grandi tracce di sé a Vauxhall ma ebbe modo di iniziare una carriera di “mediocre” autrice di spionaggio. M, interpretata dalla Dench possiede la durezza, lo spessore di un personaggio chiave, lo dimostrerà nel corso dei film successivi.

Il contrasto con il nuovo Bond non è il solito duetto da commedia tra padre burbero e figlio scapestrato, che battibeccano ma alla fine si vogliono bene. M non esita a mandare alla morte i suoi agenti se necessario ma riesce anche a leggerne nelle pieghe oscure del comportamento. La conflittualità con il nuovo Bond è uno dei cardini di questo nuovo inizio.

           

Daniel Craig in "Casino Royale"
Daniel Craig in "Casino Royale"
Daniel Craig non è stato (e ancora parzialmente non lo è) accettato da molti fan dell’eroe di Ian Fleming. Se pensiamo che l’autore ai tempi riteneva Sean Connery troppo rozzo e avrebbe preferito Hoagy Carmichael o persino David Niven, una ragione c’è. Di fatto Craig è Bond ma al tempo stesso non lo è.

Lo capiamo con chiarezza nelle sequenze iniziali in cui si guadagna il doppio 00 della sezione con “Licenza di uccidere” compiendo due “sanzioni” diverse nell’esecuzione (una a sangue freddo, l’altra al termine di una micidiale scazzottata nei gabinetti di un edificio di Praga) ma chiaramente brutali, prive di glamour che lo definiscono sia come eroe d’azione moderno, fisico e muscolare, che come uomo.

Il vero problema (per alcuni) di Craig non è di essere biondo e decisamente meno elegante dei suoi predecessori. Il suo Bond è... un altro Bond... che ha le sue origini proprio dove i romanzi erano stati tralasciati e le svela sempre di più. Come dice Eva Greene (perfetta Vesper) in uno dei dialoghi meglio riusciti del film «si veste con capi eleganti che gli stanno male perché pensa che la gente ricca si vesta così, ma viene da un orfanotrofio».

È un operativo delle truppe speciali passato ai servizi. Dentro di sé ha tormenti che nasconde con una maschera di pietra. Una corazza che la stessa Greene gli strappa pezzo per pezzo con il sesso e il sentimento e lui lo ammette, pronunciando quelle parole “ti amo” che mai avremmo immaginato sulla bocca di 007. Ma lo fa senza quella sdolcinata vulnerabilità che aveva rischiato di mandare a picco il personaggio nella versione di Timothy Dalton.

        

Bond, alla fine, è sempre Bond. L’ironia, la violenza, la capacità di riprendersi anche dopo le peggiori batoste (essere solleticato nelle parti nobili con una corda impiombata non è esattamente un trattamento delicato). È un eroe che ha fatto della lezione adrenalinica di Jason Bourne (vera icona spionistica degli anni 2000 nella versione di Matt Damon e di Paul Greengrass) uno stile di vita.

Eva Green, Daniel Craig e Caterina Murino
Eva Green, Daniel Craig e Caterina Murino
La sceneggiatura invece riprende il primo romanzo della serie, datato 1953 e basato sulla Guerra Fredda, il gioco d’azzardo, la suspense più che l’azione. Il lavoro di adattamento è magistrale. L’azione mozzafiato non manca, aggiungiamo riferimenti alla cronaca più recente, cancelliamo ogni traccia della Guerra Fredda, inseriamo nuovi nemici, terroristi e organizzazioni che ricorrono alla violenza ma anche alla manipolazione dei mercati. E se la lunghissima sequenza d’azione iniziale in Madagascar mette in scena una coreografia in cui sparo e scopi e scazzottate si mescolano con la disciplina acrobatica del parcour (una sorta di gimcana acrobatica inventata in Francia) tutto preparara un ritorno del personaggio alle origini.

          

Alle Bahamas seduce Caterina Murino, più Bond Girl, che mai in una cornice glamour, accontenta poi la platea americana in un inseguimento all’aeroporto di Miami dove evita un’altra tragedia del terrore, ma è sempre Bond. Seduttore, cinico, viveur per piacere oltre che per dovere.

Tutta la prima ora di film è concepita per arrivare al fulcro della partita a carte che scambia il Baccarat con il Poker con un’intuizione eccellente e piazza la storia in un Montenegro da operetta, inesistente ma credibile. Lusso e frenetici duelli con il machete coesistono senza annoiare chi di carte poco capisce (che poi era il rischio maggiore nella trasposizione del romanzo). Operazione riuscita.

La storia si ferma, sembra concludersi con la morte del cattivo ma poi riprende, intrecciando la vita di Bond a quella di Vesper e recuperando pur nella cornice glamour di Venezia uno degli sviluppi più noir dei romanzi. La morte di Vesper è decisamente più coinvolgente di quella di Tracy in Servizio segreto. Il tradimento, l’amore, la redenzione e la colpa si mescolano dando finalmente spazio alla famosa battuta «la puttana è morta». Ma, non è finita.

Il teaser, lo stimolo a vedere cosa verrà, arriva proprio nel confronto finale con il misterioso mr. White. Bond con il mitra e non la pistola dice la sua battuta «Mio chiamo Bond, James Bond» proprio nel finale, prima che riprenda il refrain dell’ottima colonna sonora di Chris Cornell.

         

Se tra gli sceneggiatori Paul Haggis di certo ha inserito spessore e drammaticità nel ruolo, Martin Campbell già autore di GoldenEye riprende le redini della regia dimostrando quanto un solido mestierante possa realizzare un film completo, dove l’autorialità nasce proprio dalla capacità di divertire in maniera intelligente. Licenza rinnovata, mr. Bond.