Licence to Kill - da noi tradotto Vendetta privata per l’ovvia ragione di non ripetere il titolo italiano de Il Dr. No - comincia benissimo. Piace il recupero di David Hedison uno dei migliori Leiter della serie (Vivi e lascia morire), l’intreccio tra il suo matrimonio, la cattura del narcotrafficante Sanchez e la seguente vendetta che ripesca (sempre da Vivi e lascia morire) una delle sequenze migliori della serie romanzata. E piace anche il filo che conduce al racconto di Ian Fleming La rarità Hildebrand [The Hildebrand Rarity, 1960, raccolto nell’antologia Solo per i tuoi occhi] con Krest e la coda di manta usata come frusta per punire la bella infedele. Timothy Dalton si dimostra volitivo e atletico, sa uccidere per vendetta e si muove con dimestichezza tra investigazione e azione.

Cosa non funziona allora, tanto da lasciarci con l’amaro in bocca nei titoli finali quanto all’ormai classico “James Bond tornerà” non si abbina il titolo di un prossimo episodio?

            

Difficile dirlo perché l’ultimo film firmato dal mestierante John Glen ha tutte le carte in regola per riuscire. Robert Davi è un nuovo genere di cattivo, trafficante di droga lontano dal mondo dello spionaggio.

Va bene. Siamo nell’89 e l’impero sovietico sta per cadere. Inutile riesumare la Guerra Fredda e anche la distensione. Ormai sono i narcotrafficanti, i gangster globalizzati la vera minaccia. Alla CIA e all’MI6 si affiancano l’FBI e l’antidroga di Hong Kong che entra in scena a Panama (trasformata nell’immaginaria Isthmus) che, non a caso, è diventata territorio dell’espansione economica cinese. Anche il furto degli Stinger è un elemento accessorio a una storia che ha giustamente un piglio moderno. Una trama che come abbiamo visto ripesca nella tradizione bondiana ma tiene conto anche di Miami Vice. E, generalmente, ci si astiene da scivoloni in un’ironia che ormai ha fatto il suo tempo.

Personalmente trovai all’epoca un po’ fuori tema la comparsata del figlio di Armendariz nel ruolo del presidente burattino e la presenza del predicatore porcellone che, tuttavia, un suo senso ce l’avrebbe avuto. No, i problemi sono altrove.

Carey Lowell & Talisa Soto
Carey Lowell & Talisa Soto
Nella sceneggiatura per esempio, ancora una volta firmata da Michael G. Wilson e Richard Maibaum, che il “canone” Bond lo conoscono eccome ma persistono nel voler cambiare la psicologia di Bond per farlo accettare anche a un più vasto pubblico femminile, che tuttavia non sembra reagire allo stimolo. Dalton ha troppo spesso l’occhio lucido, è meno monogamo che nel precedente episodio ma finisce per cedere al fascino dell’innamoratina Carey Lowell che pure è un bel personaggio ma... non è una vera Bond Girl. Lo sarebbe molto di più Talisa Soto, esotica, sensuale, preda del cattivo e pronta a gettarsi nelle braccia dell’eroe... o semplicemente dell’uomo più ricco.

Anche l’accenno al matrimonio e al dolore che ancora provoca il ricordo di Tracy appare esagerato. Lo stesso genere di allusione si trovava anche in uno scambio di battute tra Moore e la Bach ne La spia che mi amava, ma il buon Roger manteneva un britannico distacco.

Insomma James Bond 007 resta un eroe macho. Forse gli si può perdonare qualche battuta leziosa ma un sentimentalismo da romanzo rosa proprio no. Le schiere di femministe che lo hanno tacciato come maschilista non si ricrederanno mai. Bond è l’uomo che i maschi vorrebbero essere e le donne desiderano, proprio per la sua arrogante(ma non brutale) virilità. Io credo che il problema principale di questa Era Bond, durata appena due episodi, sia stato essenzialmente questo. Il resto del film, invece è piacevolissimo benché nella seconda parte di sia un florilegio di cattivi (Heller, Dario, Truman Lodge esperto di marketing che pare una macchietta, Krest...) che possono ingenerare un po’ di confusione in una trama piena comunque di imprevisti. Ci sono persino i ninja (che dovrebbero essere giapponesi e invece sono cinesi, vabbè) e naturalmente gli squali, i sub e un inseguimento spettacolare con le autocisterne sulla Carrettera del Diablo che, assicura John Glen, è un luogo davvero maledetto e creò una serie di incidenti in fase di lavorazione che lasciano un’ombra sinistra sulla pellicola.

          

Carey Lowell e Timothy Dalton (copyright 1989 Metro-Goldwyn-Mayer Studios Inc.)
Carey Lowell e Timothy Dalton (copyright 1989 Metro-Goldwyn-Mayer Studios Inc.)
A tanti anni di distanza però il film è ancora gradevole, pieno di ritmo e, soprattutto nella prima parte, estremamente compatto e divertente. Siamo evidentemente di fronte a un tentativo di reboot della serie ma eseguito senza vera convinzione. Non è il Bond duro e puro delle origini e neanche quello veramente troppo ironico di Moore. Si ha come l’impressione che al desiderio di cambiare, di aggiornare o meglio “riposizionare” la serie non ci sia stato un vero riscontro a livello di sceneggiatura. Wilson e Maibum non osano più di tanto, procedono con sicurezza quando si tratta di riproporre schemi collaudati ma sembrano incerti quanto si viene al momento della verità.

Bond alla fine affronta gli anni ’90 con un passo un po’ affaticato che tarderà ancora diversi anni per ritrovare.