Sembra matematico (e forse lo è…): The Tree of Life sta a Terrence Malick in termini di opera cinematografica, esattamente come 2001: Odissea nello Spazio a Stanley Kubrick.

Due film, quelli appena citati, capaci di consacrare una carriera (ammesso e non concesso che ce ne fosse bisogno…), ed è il caso del 74enne Malick, o di annunciarne una sfolgorante, come in effetti fu quella di Kubrick, all’epoca di 2001:…, era il 1968, appena quarantenne.

Entrambe le pellicole hanno dalla loro una portata immaginifica senza limite alcuno e in virtù di ciò capaci di sprigionare una serie infinita di interpretazioni senza peraltro che qualcuna appaia come più calzante o più esaustiva di qualsiasi altra.

Dopo quattro film (La rabbia giovane, I giorni del cielo, La sottile linea rossa, The New World) tutti in qualche modo classificabili per quanto in modo atipico nell’ordine come un road-movie generazionale, un melodramma, uno war movie filosofico, un film storico, stavolta Malick si avventura scientemente nel territorio dell’“inclassificabilità” vista l’accostamento dei temi che Malick squaderna con una eleganza registica eccezionale ma anche con salti logici che lasciano spiazzati non poco.

Per quanto alla lunga The Tree of Life pecchi sul piano della compattezza al punto che forse la parola capolavoro sembra un po’ tirata dentro a forza (va anche detto che a Cannes, dove il film si è aggiudicato la Palma d’Oro come miglior film non sono mancati i fischi…). Una cosa però è certa, cioè l’impressione di un cineasta capace di filmare le cose in apparenza più semplici, i componenti di una famiglia, un campo di girasoli, con una cura, una devozione, una forza, una semplicità, una grazia tali da far sembrare il tutto come la prima volta che qualcuno vi abbia posato gli occhi sopra.

Il risultato è ancora più ragguardevole se consideriamo che la parte per così dire “tradizionale” è quella molto prosaica di una famiglia, padre, madre, tre figli, tutti maschi, che come moltissime famiglie si barcamenano tra educazione ferrea, quella imposta dal padre (Brad Pitt) ai figli, e dolcezza materna (Jessica Chastain), tra momenti di pace assoluta ed altri in cui la situazione sembra ad un passo dall’esplodere.

L’altra parte invece, quella “metafisica” per così dire che irrompe e interrompe il vivere quotidiano, risulta più piana e distesa per quanto inevitabilmente a tratti “bizzarra” (dinosauri, oceani, forme luminescenti, una spiaggia che forse è l’aldilà…), come una incessante e gigantesca “libera associazione”.

Forse un’autobiografia per immagini, forse un modo “non” proprio nuovo di fare cinema ma che lo sembra, forse uno di quei casi in cui le parole sono particolarmente inutili.

Una ragione in più per vederlo…