Cosa succederebbe se un uomo in sogno attraversasse il Paradiso, ricevendo un fiore alla fine del viaggio, e svegliandosi si ritrovasse un fiore fra le dita?

Questo si domandava Samuel Coleridge in una sua nota, ed è un’esperienza sensoria straordinariamente simile a quella provata da chi legga Fiori nell’ombra, il primo romanzo di Sacha Rosel.

È però azzardato utilizzare il termine romanzo - come specifica Danilo Arona nella sua prefazione - per definire un’operazione di “contagio energetico”: l’energia racchiusa nell’esile forma di fiore ha utilizzato la scrittura di Sacha Rosel per accedere alle nostre menti...

  

Qing viene invitata ad un «inconsueto raduno di artisti» a casa dell’editrice Huang, il cui giardino porta scritto “Il giardino di tutti i profumi” sull’architrave. La scrittrice è stata invitata da un’ex amica, Wu, i rapporti con la quale si sono rovinati quando è spuntata l’accusa di plagio: ora, dopo tanti anni, Qing e l’amica accusatrice si trovano a passare la serata insieme alle altre ospiti.

«Ciascuno di noi è alla ricerca di una personale forma di perfezione, - inaugura Huang la serata. - Curiosamente, tutti abbiamo scelto i fiori come possibile simbolo di risveglio».

Il tema dell’incontro sarà “floreale”. «Ciascuno di noi racconterà due storie, e ognuna di esse sarà incentrata su un fiore a sua scelta. Ogni narratore avrà un momento della giornata a lui riservato e una zona precisa della casa da cui trarre spunto liberamente».

Qing, Huang, Wu, Hong («pittrice di sconvolgente bellezza»), Bai (dallo «sguardo calmo e al contempo ossessivo, pulsante come la pioggia»): questi nomi non sono casuali, come nulla in Fiori nell’ombra avviene per caso: ogni aspetto della storia, ogni personaggio, ogni narrazione, ogni più piccolo particolare, è una parte del tutto: un petalo di un unico fiore. Non il fiore come lo ritrae una certa iconografia occidentale: rilassante e variopinto oggetto d’arredo. (“Oggetto”, perché per noi la vita vegetale è forma inferiore, se non infima, di vita.) Niente di tutto questo.

I fiori di Sacha Rosel sono “fiori del male”. Ogni racconto che esce dalla bocca delle protagoniste crea un affresco floreale di profonda inquietudine, un roveto di sole spine in cui i sentimenti e le sensazioni del lettore rimangono intrappolati, invischiati in un gioco che porterà solo al massacro: allo specchio finale nascosto in uno dei nomi delle protagoniste.

 

L’autrice crea un’opera «pura e sottile, come il tè più pregiato», un’antologia nel senso etimologico del termine: una “raccolta di fiori”, i fiori della tradizione letteraria cinese nella quale la Rosel si è immersa completamente per tornarne con petali come «tanti ricordi fluttuanti». Così come il protagonista della Macchina del tempo di H.G. Wells torna dal futuro con un fiore fra le mani, l’autrice torna da un viaggio nella più profonda cultura cinese con le mani piene di fiori, ricchi di essenze... non nel senso di profumi, però.

Ogni fiore ha un’anima, e come Shelley affermava che ogni poema è parte di un unico poema infinito, così ogni fiore è parte di un unico fiore infinito: la vita di ognuno non è che un’apparenza destinata ad evaporare nell’essenza infinita.

 

«I fiori sono il nutrimento degli dei, e attraverso di essi comunicano con noi». Sacha si fa messaggera degli dei e dei loro fiori, narrandoci una storia inquietante che dimostra la labile apparenza del nostro mondo e della nostra percezione di esso.

Un romanzo sottile ma tagliente, come la spina d’una rosa infinita.