«Ci sono cose che un uomo farà e cose che un uomo non farà». La frase di Confucio, utilizzata nel suo ultimo romanzo, descrive più di una caratteristica di Qiu Xiaolong, uno dei pochi giallisti cinesi che scrive in inglese, è pubblicato anche in Cina e vive negli Usa. «Una giusta distanza - ha detto tempo fa - come fossi dentro e fuori allo stesso tempo. Un poeta della dinastia Tang diceva che non puoi vedere il vero volto della montagna Lu, perché tu sei nella montagna».

Nato a Shanghai nel 1953, Qiu ha studiato a Pechino e negli Stati Uniti. Durante le proteste di Tian'anmen nel 1989 si trovava negli Usa. Come volontario aiutò gli studenti cinesi cucinando e vendendo involtini primavera fuori dall'università. Il governo lo scoprì, la polizia andò a casa della sua famiglia e la minacciò. «Quando sentii una radio cinese fare il mio nome come fiancheggiatore degli studenti rimasi sconvolto e non tornai in Cina fino al 1995». Tornato a Shanghai ha trovato un paese diverso e ha deciso di raccontarlo: in inglese e attraverso dei gialli ambientati tra passato non troppo remoto e presente sfavillante cinese. Qiu Xiaolong vive a St Louis, la città di T.S. Eliot, la sua grande passione. Perché come il protagonista dei suoi romanzi anche Qiu Xiaolong è traduttore. Oltre al poeta di St. Louis ha tradotto anche Montale, che a sua volta tradusse Eliot in italiano, in cinese.

La Cina raccontata da Qiu Xiaolong che leggiamo in Occidente è diversa da quella che leggono i suoi lettori cinesi: per pubblicare in madrepatria ha accettato, anche per non mettere a repentaglio il suo editore, cambiamenti piuttosto profondi nei suoi libri. E il suo ultimo romanzo, Ratti Rossi, edito da Marsilio, è tutto incentrato sul tema della corruzione.

Nei suoi gialli il protagonista è l'ispettore Chen: un poeta piazzato dal Partito a fare lo sbirro. Chen ha la passione per la buona cucina del Montalbano di Camilleri, la flemma del Duca Lamberti di Scerbanenco e il romanticismo poetico di nessun altro. Una sorta di Prufrock moderno, tra volontà di cambiare dall'interno il sistema, recuperare ed esplorare il passato e la domanda di Eliot sempre con sé: «posso osare?». Qiu Xiaolong racconta la Cina, tra materialismo capitalista e perdita del passato, distici di epoca Tang e massime di Confucio, per esplorare e capire la Cina moderna, anche quella olimpica.

Come vive un cinese negli Stati Uniti le Olimpiadi di Pechino?

Mi viene in mente un aneddoto. Qualche tempo fa ho guardato la partita di calcio femminile tra Cina e Stati Uniti. Io e mia moglie tifavamo Cina, mia figlia invece tifava Stati Uniti. Lei si sente americana, è nata qua. Sono tanti nelle nostre stesse condizioni. Da parte mia anche alle Olimpiadi tiferò per il mio paese e credo che i Giochi siano un'ottima possibilità sia per i cinesi, sia per gli occidentali, di conoscersi meglio e condividere esperienze. I Giochi Olimpici però sono sport. Riguardo le ultime polemiche su Tibet e diritti umani, la mia posizione è chiara: non credo sia corretto mischiare i piani, quello sportivo e politico, perché il rischio è offuscare entrambi gli aspetti

La Cina corre verso il futuro. Nei tuoi libri e nelle tue interviste hai detto che non c'è l'attenzione al passato. Cosa pensi della recente pubblicazione su un magazine cinese di una foto di feriti di Tian'anmen che, secondo la rivista, sono state pubblicate per sbaglio? Più in generale si dice che i giovani non sappiano cosa successe nel 1989.

Ho letto di questo incidente. Non mi sorprende che molti dei giovani cinesi, i nati negli anni 80, non sappiano nulla di quanto è accaduto nel 1989. La ragione è molto semplice: il Governo non ha mai parlato di quei fatti, li ha cancellati. Così come la rivoluzione culturale. D'altro canto la società materialistica che sta affermandosi in Cina non ha tempo di guardarsi indietro: deve guardare avanti per fare sempre più soldi. Semplicemente alla censura del Governo c'è una mancanza di interesse per quei fatti. Fare soldi è la priorità. E' un'illusione pensare che prima o poi si possano affrontare davvero questi due buchi neri nella storia cinese.

Molti scrittori cinesi però indagano proprio quel periodo storico.

Si ma l'argomento in Cina è fuori discussione. Ne parlano in pochi, anche perché i media, che dovrebbero portare alla luce questo genere di cose, sono controllati, completamente. Se ne parli, nessuno riporta le tue parole. Anche alcuni miei amici a volte mi chiedono spiegazioni su quei fatti perché un'informazione vera non c'è.

Nel tuo ultimo libro parli di corruzione. Pensi che questo fenomeno sia una novità o sia invece insito nel sistema sociale e politico cinese da molto tempo?

E' molto complicato. Nei miei libri parlo di cose realmente successe. A Shanghai quando arrestarono i boss del partito per corruzione chiamai l'editore e gli dissi che finalmente potevano pubblicare il libro in cinese. La risposta mi sorprese: nessuno si può permettere di dire che qualcuno è corrotto. Solo il partito può farlo. I miei libri sono stati pubblicati in cinese con cambiamenti rilevanti. Shanghai è diventata la Città di H. e tutti i riferimenti a luoghi ed eventi sono stati cambiati. Oppure il romanzo dal titolo Quando il rosso è il nero con chiari riferimenti politici ai due colori, in Cina è stato tradotto come Elegia per una casa Shikumen. In Cina un sistema legale non c'è mai stato, siamo sempre stati dipendenti dall'attesa di una persona onesta capace di risolvere tutti i problemi e annientare la corruzione. Il sistema non può garantire questo, perché è immerso nelle logiche di potere.

Qualcuno come l'ispettore Chen, anche se hai dichiarato che non ti è particolarmente simpatico, sarebbe utile nella Cina moderna?

L'ispettore Chen non so se potrebbe essere utile oggi. Ho alcuni amici a cui piace. Sono cinesi: non sono poliziotti, ma hanno la stessa storia. Loro sono persone che hanno deciso di rimanere nel sistema e combattere dall'interno, accettando però di starci. Compromessi. Non sono felici, ma hanno scelto di provarci. Loro vogliono cambiare questo paese. Chen è come loro. Non lo definirei un eroe, piuttosto è un anti eroe. Accetta compromessi, nella speranza di poter cambiare qualcosa. Quando mi sono posto la domanda se restare o no in Cina una volta che sono tornato, mi sono risposto negativamente: ho pensato che sarebbero stati troppi i limiti per uno scrittore. E ho deciso di restare negli Stati Uniti, anche se non ho problemi quando torno in Cina.

Cosa consiglieresti ad un occidentale in Cina, per capire al meglio la vostra cultura?

A parte leggere i miei libri, suggerire una cosa sola è impossibile. Direi però di non preoccuparsi delle differenze, di non essere timorosi. Direi di buttarsi, informarsi, guardare anche la televisione e soprattutto parlare con i cinesi, senza avere timore di incomprensioni. I giovani non ricordano il passato, ma sembrano avere voglia di condividere con gli occidentali le proprie speranze e le proprie esperienze. Non conoscono la propria storia, ma parlano inglese, navigano sul web, leggono e soprattutto conoscono molto bene la cultura e la mentalità occidentale. Quest'ultima caratteristica è un'ottima cosa. Consiglierei di non avere paura della Cina.

L'articolo è pubblicato anche sul sito China Files

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China Files - Reports from China. Agenzia di stampa specializzata in reportage e inchieste sulla Cina

[Intervista pubblicata da Il Manifesto l'8 agosto 2008]