Una lunga avventura del Professionista, questa del ritorno sulla pagine di Segretissimo. Senza tradire alcuni elementi decisamente noir emersi nelle ultime stagioni, primo tra tutti un legame con l’Italia, ma con la volontà di riportare il personaggio alle sue radici. Ossia all’avventura pura e dura, allo spionaggio. Ovviamente, rispetto a quindici anni fa il panorama mondiale geopolitico e il modo di raccontare le spy-stories è cambiato. Non si tratta più di affrontare la divisione dei blocchi e anche il conflitto con il terrorismo ha preso direzioni differenti impensate. L’islamismo fondamentalista si è spaccato e, soprattutto in alcune aree come la Nigeria – teatro fondamentale di questa avventura – è diventato un pretesto per armare eserciti di disperati votati alla distruzione per se stessa. Come la ricerca dell’arricchimento a spese dei più deboli, il saccheggio e la brutalità sono le motivazioni dei vari gruppi contrapposti. Senza ideologia se non come verniciatura. Religione oppio dei popoli. È l’avidità che spinge società farmaceutiche a studiare nuove armi batteriologiche in sacche di umanità disperata come il deserto centro africano. È la ferocia che preme ignoranti macellai come Selim Guaipertutti ad armare un esercitò vudù composto per la maggior parte di bambini soldati pieni di droga, nuovi terminator incapaci di suscitare e provare pietà. Sono infine imperscrutabili credenze religiose che oppongono il gruppo di assassini denominato 666 e i cavalieri dell’ordine di San Giorgio a combattersi da secoli dall’estremo nord baltico sino alle sabbie roventi del deserto.

E, in mezzo a questo intreccio di interessi, crudeltà personali e corporative, ritroviamo Chance Renard, il Professionista. Vissuto ma non stanco, tetro ma non disperato al punto da rinunciare a brevi intervalli di piacere, una donna, un sigaraccio, una bevuta. Anche lui sa che, come gli altri mercenari incaricati dalla Divisione Sicurezza Europea di portare a termine una missione impossibile, è merce in scadenza. Domani potrebbe essere morto. E la missione, questa volta, non lascia spazio per indecisioni o incertezze. Non è un caso se, nella scelta del commando che lo accompagnerà in Africa, Chance esclude parte della sua banda milanese. Dopo l’avventura di Beirut, il Freddo e Kim soffrono di ferite crudeli, la Bimba ha affrontato i suoi fantasmi ma ancora deve decidere se proseguire per la via pericolosa che si è scelta. E Tommaso si muove a un livello di rischio che è comunque inferiore a quello richiesto per l’operazione. Chance preferisce chiamare sicuri professionisti come Pietro Aulla, Yao e Gregor Klagermann che da anni lo accompagna come amico e avversario. Ma anche questa scelta porterà a qualche sorpresa.

Ovviamente ci vuole un pilota e allora perché non richiamare in campo uno dei personaggi più graditi della serie, Sylviette Beauregard, la nera che, non fosse per la cicatrice che le attraversa un sopracciglio, potrebbe essere la sosia di Naomi Campbell? E con lei c’è anche Antonia, la stone killer che Chance ha incontrato in “Contratto veneziano” e che i lettori di Segretissimo conoscono dalla serie Vlad e dal romanzo One Shot “Vladivostok hit”.

Questo per completare la lista dei volti noti, ma una vicenda così complessa richiedeva una serie di comprimari e avversari del tutto nuovi.

Come già è avvenuto in ‘Montecristo’ i fili narrativi si incontrano. Bruno Genovese è diventato capo della DSE, se vogliamo è una versione più anziana e più matura del Professionista. Ma con lui porta anche un altro personaggio che i miei lettori conoscono già dai tempi di ‘L’ Ombra del Corvo’. Raven, l’assassino capace di sopravvivere alla morte stessa, un compagno in alcune fasi del racconto e un avversario che trova un degno termine di comparazione solo in Spalko, gigantesco guerriero-santo dell’estremo nord. Perché in ‘Campi di morte’ la vicenda spionistica, l’azione bellica si abbinano a una componente mistica che in questo caso è legata alla religione Yoruba, alle radici della magia nera africana e a una leggenda, quella del bandito Cobra Verde. Il personaggio (portato al cinema da un film forse non perfettamente riuscito di Herzog ma con un grande Klaus Kinsky) è esistito veramente. Un espatriato, un bandito, un tagliagole. Un avventuriero, selvaggio, crudele, un uomo morto da secoli ma che incombe su tutti gli altri come evocato da un sortilegio. Mercante di schiavi, assassino, lui stesso re di una città maledetta ai confini tra Nigeria e Niger, Cobra Verde aspetta solo un’anima dannata per reincarnarsi al culmine di un bagno di sangue.

‘Campi di morte’, programmaticamente, non fa sconti a nessuno. Non è una storia buonista o consolatoria. Lo stesso Chance, se vogliamo, è uno psicopatico poco incline al perdono, con un suo rigido codice di comportamento che non pretende di far capire ma che applica con brutalità quando occorre. Perché la missione non è una faccenda per velleitari. L’esitazione, l’ingenuità possono costare la pelle. A chiunque. Per cui Chance e tutti i suoi compagni si trovano proiettati in un mondo violento dove le difficoltà dell’azione bellica, gli intrighi sono solo parte del pericolo. Il terreno di fuoco è trai più desolati e ostili della terra, infestato da malattie, animali feroci, bambini soldati più feroci degli adulti. Il ritmo della marcia è massacrante.

Ovviamente c’è una tradizione narrativa alle spalle dell’intreccio, lo dimostra la citazione delle parole della canzone di Joan Armatrading “The Flight Of The Wild Geese” che fu colonna sonora di uno dei film di guerra mercenaria meglio riusciti ‘I 4 dell’Oca Selvaggia’. Di questa produzione e di innumerevoli romanzi e memorie di guerra africana ‘Campi di Morte’ è debitore come ispirazione anche se, paradossalmente, c’è persino qualche spunto che rimanda al ‘Giardiniere Costante’ di LeCarré. Ma a quel punto si arriva da diverse direttive di marcia. Inutile negare che le esperienze thailandesi di Antonia un poco ci riportano a qualche sequenza di ‘John Rambo’ ma l’inserimento dei Ninja è una suggestione nuova che cerca di reinterpretare un mito già consolidato leggendolo in maniera differente. Tutta la scena sadomaso tra Tallinn e Caserta vede Chance in solitario, come ai vecchi tempi in un’atmosfera che mi piace accomunare al ‘Giuramento’ di Grangè anche se, ovviamente, lo svolgimento della trama è quello della tipica spy-story marca Gunn. Era importante inserire anche qui uno scenario italiano. Caserta, però, non è il regno dei camorristi. È un altro universo, più torbido, glamour nella sua ferocia in cui Chance e Antonia si incontrano. Il loro rapporto evolve la situazione che già abbiamo visto in ‘Contratto veneziano’ ma resta incerto. Antonia è ‘a woman apart’, diversa da ogni altra Chance abbia mai incontrato. Si trova a un livello superiore persino alla diabolica Jadranka di ‘Gangwar’ e certamente è differente da Sylviette o da Caterina. Antonia è Antonia. Paradossalmente un modello di donna libera ed emancipata, distante da patetiche figure di vetero-femmiste quanto dalle classiche Professional Girl pronte a concedersi e a uccidere senza scrupoli. Antonia è ‘marcia dentro’ come dice lei stessa. Ma il vero buco nero che attrae tutto e tutti rimane la Città di Cobra Verde, immobile da centinaia di anni nel deserto con le sue malìe, le sue suggestioni, simbolo di avventure e crudeltà.