Trent’anni.

Marco ci ripensa, a volte, a com’erano gli anni ‘70. Quando andava al liceo. Si torce ancora nel rancore a pensare a tutti quegli stronzi che facevano politica come un gioco. Eskimo, sciarpette, barbe  appositamente mal rasate per i ragazzi. Maglioni con le maniche troppo lunghe, zoccoli e gonnelline a fiori per le ragazze. Divise. Politica perché se non eri  ‘impegnato’ non eri nel gruppo. Oggi andrebbero tutti a qualche reality show, i suoi compagni di scuola e le loro donne. Quelli che gridavano: “Stai attento poliziotto P.38 P.38!”. Che lo tenevano a distanza perché a lui di quelle cose non ne voleva sapere.

Lui aveva i suoi sogni. Voleva fare lo scrittore. Però, loro, con i soldi di papà, sono andati all’università. Neanche dieci anni dopo giravano in doppio petto, tutti belli tirati, studiavano marketing e avevano persino i primi cellulari. Le ragazze ‘recuperavano la femminilità’ con gli abiti griffati.

Lui, invece,  l’università non aveva potuto permettersela. Suo padre faceva il metalmeccanico davvero, aveva perso il lavoro per un brutto pasticcio di cui c’entrava l’invidia di un collega. Niente sindacato.

Insomma, Marco era entrato in Polizia perché aveva una rabbia dentro da sfogare e quello era il modo migliore per sfogarla. Non  il più giusto, però aveva funzionato,  per un po’ almeno. Sempre fuori con la Beretta, negli scontri con i duri della mala milanese.

Banche, attentati. Destra e sinistra. Delinquenti comuni. Una volta,  nel suo nascondiglio sui Navigli, avevano beccato un ras della zona di San Babila. Un duro autentico. Aveva risposto sparando con due 357 come in un film di Peckinpah. Sangue al rallentatore. Paura vera.

Era anche entrato nei gruppi sportivi. Campione italiano di Judo e selezioni per le olimpiadi di Boxe. Una buona prospettiva, il gruppo sportivo.

Poi erano arrivate le stragi dure. Gli attentati nelle stazioni. Parlamentari rapidi, giornalisti gambizzati.

Gli avevano fatto una proposta che era molto meglio delle olimpiadi.

Come una droga. Adrenalina in vena.

Infiltrato in un gruppo di estrema sinistra.

Così aveva cominciato una vita sotto copertura. Mai due notti nello stesso posto. Fatto e strafatto. Lucidissimo al tempo stesso.

Aveva sparato in un ginocchio a un reporter per sostenere la sua ‘leggenda’ alla fine era entrato nel nucleo principale.

E lì aveva  incontrato Anna Maria.

L’amore della sua vita.

Piena di fuoco. Pasionaria, si diceva. Capelli cortissimi, biondi. Un giunco. Abilissima nel corpo a corpo. Si era addestrata in Libia. Non era stato amore a prima vista. Per mesi si erano scrutati, studiati, annusati come animali.

Era successo una notte in fuga dalla polizia che non sapeva nulla dell’incarico di Marco.

Nascosti in un casale nella Bassa. Avevano fatto l’amore come bestie. Sicuri che il giorno dopo li avrebbero ammazzati.

 E, invece, inspiegabilmente, avevano trovato un buco nella rete.

Era stato in quei giorni che Marco aveva cominciato a sospettare. Niente di certo, nessuna conferma, nessuna prova. Il suo referente non capiva o fingeva di non capire.

La cellula cui apparteneva  riceveva aiuti. Dall’alto. Dalla parte opposta. Da gente potente. Ma non i Sovietici come dicevano al Comando. Forse Anna Maria qualcosa sapeva.

Marco non ne aveva mai parlato. Nessuno ne aveva mai parlato. Pablo, Rei, quella fuori di testa della lesbica, Nanda, Piergiorgio. Forse il leader, Ermanno, lui che quando suonava la chitarra non avresti mai detto che era pronto a fase saltare una stazione della metropolitana, sapeva qualcosa.

Dopo qualche mese Marco non ci capiva più niente.

Non sapeva se era uno sbirro.

Non sapeva se era un terrorista.

Non sapeva se il suo gruppo agiva in buona fede o era manovrato.

Non sapeva da dove venivano i soldi.

Sapeva solo di essere innamorato di Anna Maria.

Come avrebbe dovuto innamorarsi a sedici anni. Ma, a sedici anni, nessuna lo aveva ricambiato.

Anna Maria invece sì. Con tenerezza, con passione, con rabbia.

Accettandolo per quello che era. Senza condizioni.

Non solo perché erano compagni di lotta.

Il destino. O forse il caso. Chissà.

Ma i tempi correvano sul fuoco. Si preparava qualcosa di grosso.

Altri misteri. Contrordini, appuntamenti. Frasi in contraddizione. Dettagli. Nervosismo. Piergiorgio s’era beccato una pallottola nella nuca. Marco aveva sempre pensato che fosse stata Annamaria, per ordine di Ermanno.

Motivo sconosciuto.

C’era qualcosa di veramente brutto in ballo.

Poi venne l’ordine del suo controllore.

Si toglievano i guanti. La cellula andava bloccata. Eliminata a qualsiasi costo.

E lui, Marco, avrebbe portato i porci a casa dei suoi amici.

Non era quella la sua missione?

Di notte. All’improvviso. Luci, ordini gridati, fumogeni. Un tentativo di fuga, spari.

Ermanno s’era praticamente ammazzato da solo schiantandosi con la Giulia contro un’ autobotte mentre cercava di sfuggire alle volanti.

Altri erano morti. Altri feriti. Anna Maria l’avevano pesta per bene. Ma l’avevano presa viva.

E lei aveva capito. Neanche una parola ma uno sguardo fisso, senza vita, come se si spento dentro di lei un fuoco e se ne fosse acceso un altro di fiamme nere d’odio.

Anche al processo dove lui aveva deposto protetto da un mephisto. Il poliziotto leggendario. Il divo. L’infame.

Lei lo aveva guardato. E basta.

Neanche una parola. Non una pentita.  Niente nomi, rivelazioni, presa di posizione. Non si era  proclamata prigioniera politica. Nulla.

S’era beccata  trent’anni. Neppure un giorno di sconto di pena. Neanche una parola sulle misteriose connivenze. Dentro nessuno l’aveva toccata. Era la silenziosa custode di un segreto che un delitto carcerario avrebbe potuto svelare. Niente domande. Oblio.

Annamaria esce tra due giorni.

Marco lo sa che quell’appuntamento non può mancarlo anche se lei deve averlo odiato ogni singolo istante là dentro.

Come lui ha odiato se stesso e ha continuato a chiedersi se non avrebbe dovuto mollare tutto e portarla via.

Sa che sarebbe stato inutile.

Come cercare di capire cosa c’era veramente dietro quella cellula che a un certo punto, smise di esistere.

Marco, alla fine,è andato in pensione. Con un ginocchio a pezzi dopo un’operazione a Genova in cui voleva fare ancora il duro ma non aveva più l’età né lo spirito. Un ecuadoriano, di una gang di quelle che trent’anni prima manco c’erano, gli ha sparato con un fucile a pallettoni al ginocchio.

Gli hanno dato una medaglia ma cammina con il tutore.

Sa che Anna Maria gli sputerà in faccia. Ma sa anche che lei non troverà nessuno ad aspettarla. Trent’anni sono lunghi. La sua famiglia è morta. Sua sorella, l’unica rimasta, non ha mai voluto vederla. È andata in Spagna si è sposata. Non sa neanche che Annamaria esiste più.

Lui sì. Per cui le scrive e imbuca una lettera con la posta prioritaria per essere sicuro. Perché per lei non sia una sorpresa.

Perché questa volta Anna Maria, la donna che lo ha amato non abbia butte sorprese e sia pronto.

E lui?

È pronto da una vita …

Non aspetta altro, praticamente.

Anna Maria ci ha creduto veramente. E come avrebbe potuto fare diversamente?

Una famiglia di merda e non vuole aggiungere altro ai suoi ricordi perché, altrimenti, le monta una rabbia dentro che sbatterebbe il cranio contro la parete della cella sino ad aprirselo. Ma lei non vuole morire. Deve ricordare. Le poche cose belle. Il ragazzo algerino che ha conosciuto in un centro sociale a diciassette anni. L’amore, gli spinelli, gli ideali, le letture. Lui l’ha stretta a sé e le ha dato un po’ di calore. Poco, ma sufficiente a convincerla a seguirlo ovunque. In Germania, in Libano dove ha visto il sole, i bambini dei campi profughi. Poi gli addestramenti in Libia. Ma il suo uomo è morto ad Amburgo, ucciso dagli agenti del GSG9.

E lei è andata avanti. Come una macchina. Senza pietà.

Finché non ha incontrato Marco e si è innamorata di nuovo.

Non gli ha detto nulla di ciò che ha scoperto per proteggerlo. Non gli ha parlato del figlio che aspettava da lui e che ha deciso di non tenere perché, al momento, pensava che fosse meglio così.

E lo crede ancora, anche se al cuore fa un male cane.

Il figlio di un infame.

E in quei trenta anni non ha mai mollato. Sempre in silenzio. Sempre in addestramento, fisico e mentale. Una prova. Un modo per non morire. La sua vita è stata così e  che ci può fare?

A piangere vengono solo brutti mali … diceva sua nonna che morì di crepacuore.

Lei il cuore ce l’ha di roccia. Così quando riceve la lettera di Marco, Anna Maria soffoca le lacrime, soffoca tutto.

Marco vuole qualcosa. Redenzione, forse. Non sa … Non ha mai saputo.

Che importa?

Anna Maria saluta le amiche. Disgraziate, drogate, donne di delinquenti, infanticide, mogli  impazzite per la gelosia diventate assassine, puttane.

Marta è quella con cui ha stretto il legame più forte.  Negli anni le ha dato anche tenerezza. Le ha permesse di parlare, di non impazzire. Peccato che le abbiamo trovato una brutta cosa che non sono riusciti a toglierle di dosso. Adesso aspetta la fine senza chiedere pietà a nessuno. Finge persino di credere che la chemio possa aiutarla. Sta in lavanderia con una calotta per coprire la testa calva, le rughe profonde come solchi.

Sorelle.

Anna Maria ha da chiederle un piacere e sa che Marta non glielo rifiuterà.

Così, la mattina prima di uscire quando abbraccia l’amica sapendo che non la rivedrà più sente scivolare qualcosa nella tasca della tuta. Piccolo, avvolto in un involucro di spugna. Dovrà tenerlo nascosto sino a quando non la faranno uscire. Sarà doloroso, sarà difficile.

Ma Anna Maria ce la farà.

Come sempre.

Il cielo ha il colore di uno specchio sporco di vernice scura. Sgocciola a ritmo, che neanche la senti. Marco ha la strana impressione che la pioggia cada al ritmo di una vecchia canzone. “Horses” di  Patty Smith. Ad Anna Maria piaceva. A volte l’ascoltava sino all’ossessione, trovandovi significati che poteva immaginare solo lei. Lui invece ha sentito solo vuoto per trent’ anni.

È venuto il momento e ha paura.

Ma proprio non poteva mancare l’appuntamento. Avvolto nel suo cappottone di pelle, la barba lunga a chiazze, i capelli arruffati, Marco ha gli occhi rossi.

Non sa cosa aspettarsi e l’angoscia gli divora la gola.

La piazza davanti al carcere è grigia. L’acciottolato irregolare si disgrega in pozze e avvallamenti. Le mura dell’istituto di pena non sembrano neppure far parte della città. Sono uno scrigno dove sono rinchiusi ricordi. Molte brutte cose e qualche attimo di felicità rimasto intrappolato per sbaglio.

Il portone si apre.

Anna Maria esce con le mani nelle tasche. La borsa da ginnastica con quel poco che le resta l’ha passata sulla spalla. Cammina con decisione sul terreno scivoloso e  dissestato. Dentro i pavimenti erano tutti terribilmente lisci. Anche l’aria sembra differente.

Con gli anni il viso si è fatto affilato. Gli occhi più luminosi. Bruciano come gioielli forgiati nel dolore. I capelli schizzano punte come se fossero acconciati apposta. Ci sono più punte bianche che bionde. Ma è bella anche così.

Marco lo vede subito. Venti, trenta metri. Troppo per potersi parlare. Lui se ne sta impalato lì come se si aspettasse qualcosa, come se alla fine il loro fosse l’incontro tra due antichi amanti.

Un po’ è così.

Ma, per la verità, è un addio prolungato da quei passi in una piazza vuota tra il brusio della città a novembre.

Mentre avanza verso di lui, Anna Maria cerca di mantenere l’espressione neutra come una maschera zen. Nella tasca il punteruolo con l’impugnatura di gomma è gelido. Dieci centimetri di lama.

Glielo pianterà dritto al cuore. Poi cosa succederà?

Probabilmente la uccideranno.

Lo ha sempre saputo. E come altro poteva finire?

Lei sa cose che nessuno dovrebbe  sapere anche dopo trent’anni.  Dentro non hanno osato toccarla. Farà un piacere a tutti.  Fornirà una scusa plausibile. Delitto passionale di una squilibrata rinchiusa per trent’anni. Una terrorista. Una bambina violata, affogata tra illusioni e desiderio di vendetta. Cupio dissolvi, ha detto una volta quella mentecatta della psicologa del carcere. Anna le ha dato una testata in faccia fratturandole il naso. Poi è stata in isolamento per tre mesi. Senza dire una parola. Che sarebbe servito? Le cose  son quelle che sono. E basta.

Passi sull’acciottolato come colpi su un tamburo. Marco vorrebbe sorridere. Sta cercando persino di immaginare una frase per chiederle scusa. Lo fa da trent’anni e non c’è ancora riuscito.

A pochi passi di distanza comprende che è inutile. Lei lo guarda fitto. Come si faceva quando da un angolo si sbucava dietro il bersaglio per scaricargli l’arma addosso.

Marco sente una trafittura improvvisa.

Non è servito a nulla. In quegli anni lei non ha nemmeno cercato di capire. Di dimenticare. Di custodire quel piccolo sentimento che si erano costruiti e perdonare tutto. Adesso che la lotta politica è finita. Adesso che le loro vite sono finite.

Lo ucciderà. Come, Marco non lo sa ma. Alla fine non gli importa.

Anna Maria è sempre stata un mistero. Per questo l’ha amata.

E, pensandoci, ha tutte le ragioni per vendicarsi.

Se ne sta fermo ad aspettare mentre lei punta nella sua direzione senza esitazioni.

Stridore di pneumatici. Rombo di motore. Due auto. Sbucano da due direzioni differenti. Scure, rapidissime. Sollevano vele di acqua putrida. Sgommano frenando intorno a loro chiudendoli in una morsa. Uomini in nero. Visi scuri, di uomini violenti. Esecutori del potere.

Il mistero. I manovratori.

Quelli che  Anna Maria non ha mai tradito.

La sua stessa esistenza è un pericolo.

Schiocchi come  rami spezzati. Due, tre. Precisi. Micidiali.

Marco non riesce neppure a rendersi conto di quello che succede. Vede Anna Maria sollevata da terra trapassata dai proiettili. Alla gola, al petto. Nastri di sangue nero si allungano nel vuoto. Anna Maria cade come se le avessero strappato il terreno da sotto. La borsa vola via. Il sangue nebulizzato accende un lampo cremisi in aria prima di incunearsi in rigagnoli sul terreno irregolare. Il pugnale che Marta le ha preparato rotola via.

Marco non vuole neppure guardarlo. Resta impietrito un istante poi grida il nome di lei. Si china a sostenerla.

Lo sguardo incrocia quello di uno degli assassini.

A capo scoperto. Arma silenziata ancora fumante.

Gli rivolgono un cenno del capo e uno sguardo che vuol dire. “T’è andata bene. Non cercare di sapere di più.”

Rimontano in macchina e svaniscono in una nuvola di gas di scarico, fragorosi come demoni risucchiati in un braciere.

Marco sostiene Anna Maria. Vorrebbe piangere ma non riesce. Però, questa volta, nell’ultimo sussulto di vita, lei lo guarda.

Come non ha mai fatto in trent’anni.

È sufficiente.