Ero stato come ogni sabato mattina a trovare mia moglie Teresa nel camposanto del paese, era tutto sommato un bel posto e dal poggio, si poteva vedere in basso il golfo e il mare racchiuso fra due alte scogliere. Peccato che quel sabato mattina di gennaio, nonostante un pallido sole incoraggiante, tirasse una tramontana gelida che mi faceva sentire nudo, a dispetto dei vestiti pesanti.

Di ritorno, mi fermai nel bar che c’è sulla piazza del campanile, una delle tante e deliziose piazzette del centro storico della cittadina rivierasca nella quale vivo oramai da una decina di anni.

Mi aspettavano due amici, il Capitano, un ex secondo ufficiale in pensione e Perasso, un ex assicuratore che trascorreva il suo tempo dividendosi fra andare a spasso per il centro del paese, una preziosa raccolta di francobolli e le soventi visite al medico per soddisfare la sua ipocondria.

Il Capitano era intento come sempre a discutere con qualche avventore, ma a causa della sua voce stentorea,  ero riuscito a sentirlo ancor prima di giungere sulla piazza.

Per asso invece, era seduto ad un tavolino, con ancora la sciarpa strettamente legata attorno al collo ed un cappello di lana calcato sulla testa.

“Finalmente Commissario sei arrivato, ci facciamo l’ultimo bicchierino e poi andiamo a mangiare in vico del corvo”.

Annuii e il barista ci versò tre vermentini, che erano il nostro consueto aperitivo.

“Perasso pensi di venire a bere con noi o ti portiamo da bere al tavolino così continui a leggere a scrocco il Secolo XIX?”, chiese sarcasticamente il Capitano.

“No, ora arrivo e…. comunque non è scroccare, ma semplicemente godere dei servizi che offre il locale; diversamente da te, che scrocchi decine di bianchi a tutti gli avventori rincoglionendoli con quella voce frastornante che ti ritrovi”.

Il Capitano stava per replicare, ma intervenni:” eh no, ora siete uno a uno e palla al centro, voglio bermi il vermentino e andare a mangiare, senza che continuiate a ratellare”.

   Nella trattoria di Vico del Corvo il menù era scritto su di una lavagna di fianco all’ingresso della cucina, Vittorio serviva ai tavoli  e mesceva il vino, bevendone almeno quanto ne metteva in tavola ed Aurora, la moglie, una cinquantenne ancora molto appetitosa, preparava il mangiare, offrendo piatti di ottima qualità.

Il capitano ed io prendemmo lo Zemino e Perasso scelse il minestrone,  accompagnammo i piatti con un dolcetto profumato ed aromatico che solo a guardarlo veniva l’acquolina in bocca.  

Quantunque in molti gli avessimo domandato informazioni su quell’eccellente vino rosso, Vittorio si rifiutava ostinatamente di fornirne finanche la provenienza.

“Senti, Commissario, ho letto sul Secolo di oggi che hanno rilasciato un brigatista... un certo Mario Corti, mi sbaglio o ti eri occupato dell'omicidio per cui è stato arrestato?", chiese Perasso con una insolita animazione nella voce.

Posai il cucchiaio ed annuii: "già, uno dei periodi più difficili che ho vissuto in polizia”.

“Beh, tutto qui?", domandò con una punta di delusione Perasso.

"No naturalmente, potrei raccontare per ore, ma sicuramente non adesso mentre mangiamo, magari un’altra volta.”

Intanto che passavamo al secondo, della cima per me ed il Capitano e torta di bietole per Perasso, notai come stranamente i due rimanessero zitti, senza punzecchiarsi come al solito, ma con una espressione di disappunto stampata sulla faccia.

Fu il Capitano a rompere il silenzio che durava da una decina di minuti: “Se non avete niente di meglio da fare oggi, potreste venire a prendere un caffè sulla Folgore e… tu commissario potresti raccontarci di quegli anni”.

Prima che potessi rispondere intervenne Perasso: “Sei matto? L’ultima volta che sono stato sulla tua bagnarola, ho avuto nausea per una settimana. Eh… con questo vento, il mare dev’essere sicuramente grosso”.

            La Folgore era, più che una barca, la casa del Capitano; si era venduto l’appartamento in paese ed una volta in pensione si era trasferito sull’imbarcazione, eleggendola come sua dimora.

Amava la barca sopra ogni cosa e ne aveva una cura maniacale, l’aveva battezzata Folgore in onore della nave del Corsaro Nero, personaggio fantastico, dalle romantiche gesta, raccontato nei libri di Emilio Salgari, di cui era un instancabile lettore.

Il Capitano divenne paonazzo: “Probabilmente la nausea ti sarà venuta per i tre cognac che ti sei mandato giù quella volta, ma già a te viene la nausea persino quando fai il bagno nella vasca ed è per questo che ne fai raramente”.

Scoppiò una lite furibonda, tutti gli avventori si azzittirono e anche Aurora uscì dalla cucina per vedere cos’era quella baraonda.

“D’accordo! Venite a bere il caffè da me e vi racconterò quella vicenda”, dissi tentando di sovrastare i due litiganti.

Uscimmo dalla trattoria, il vento si era fatto ancora più freddo e il sole, che aveva cercato di scaldare per tutta la mattina, aveva desistito lasciando  il posto  ad uno strato compatto di nuvole grigie. 

Ci dirigemmo verso casa mia, attraversando le piazze ed i vicoli del centro della cittadina, i passanti erano rari e dopo pochi minuti raggiungemmo piazza Andrea Doria, testimonianza della forte influenza genovese nella storia del paese.

E’ una bella piazza, i palazzi hanno ampi porticati e nel centro c’è una fontana circondata da panchine e da aiuole.

Nel portone salutammo Ernesto, inevitabile presenza dietro i vetri della guardiola, noto come una delle più grosse  ciatelle del paese.

Il mio appartamento era al quarto piano, invaso da un numero soverchiante di libri, ho sempre conservato ogni libro che mi è stato regalato o che ho acquistato, tanto che perfino Teresa se ne lamentava, lei che  sapeva sempre sopportare le mie manie.

Ci sedemmo in salotto con davanti i caffè fumanti e due o tre bottiglie regalatemi da qualche amico o conoscente.

Malgrado si fossero guardati in cagnesco per tutta la strada, il capitano e Per asso erano sprofondati comodamente nelle poltrone, in attesa che io incominciassi a raccontare.

Con la mente ritornai al 1970 e nonostante la tensione e la pesantezza di quegli anni, il ricordo mi suscitò una fitta dolorosa di malinconia.

 Accesi una sigaretta e mi rilassai sullo schienale del divano: “Facevo parte allora della squadra mobile della questura di Genova, a capo della quale c’era un uomo dalla tempra d’acciaio ed i capelli di fuoco.

Nell’autunno di quell’anno avvenne un fatto criminoso assolutamente eccezionale, che colse tutti noi completamente di sorpresa, ossia il sequestro del figlio di un noto imprenditore genovese. Fino ad allora questo tipo di crimini erano stati soprattutto una prerogativa dell’anonima sarda. Credevamo, con un certo stupore, di trovarci di fronte ad un nuovo fenomeno criminoso, non avevamo ancora compreso la portata di quanto stava accadendo. Supponendo che i banditi sardi avessero pensato di estendere il loro raggio d’azione, iniziammo una serie di controlli serrati nei confronti dei pastori sardi, che erano, o forse sono ancora, sulle alture di Genova, dove, vicino ai forti, pascolavano i loro armenti, ma non emerse niente di interessante. Mentre ci interrogavamo su come muoverci, fu recapitata al Secolo XIX la prima lettera con le richieste e le disposizioni, firmata Lo Svizzero, che indicava una richiesta di duecento milioni di lire, che per quei tempi era una somma davvero considerevole, in cambio della liberazione del giovane. Le modalità con cui era stata condotta l’azione e la richiesta avanzata, ci fecero escludere definitivamente il banditismo sardo come riferimento delle indagini. Però era un segnale di un mutamento degli equilibri criminali che si erano creati e consolidati a Genova e solo un fenomeno peculiare come quello del terrorismo poteva produrre; ma questa fu una riflessione alla quale giungemmo soltanto dopo.”

Spensi la sigaretta e mi versai una generosa dose di whisky, poi ripresi: ”In quei giorni ci furono una serie di frenetiche consultazioni con le nostre fonti di informazione, che in ogni modo escludevano con certezza di attribuire al contesto criminale genovese la responsabilità di un’operazione così eclatante.

Arrivarono altre lettere, sempre alla redazione del quotidiano, che ci fornivano indicazioni via via più precise per il pagamento del riscatto.”

Mi accesi un’altra sigaretta, a dispetto di Perasso che sventolava un fazzoletto e arricciava il naso a causa del fumo che invadeva la stanza, dovuto alle mie sigarette e al sigaro del capitano.

“Preparammo minuziosamente  i passaggi inerenti il recapito del riscatto, che sarebbe stato consegnato da un emissario della famiglia nei pressi di un locale di Priaruggia. Dopo la consegna diverse auto, opportunamente disposte, presero a darsi il cambio nel seguire il fantomatico Svizzero. Una di esse riuscì a mantenere il contatto seguendo in direzione levante la sua auto, ma qualcosa non funzionò ed ad un certo punto lo perdemmo definitivamente. Sulla carta ci era parso tutto chiaro, ma sul campo si evidenziò confusione e scollamento e l’operazione fallì miseramente,  nonostante i grossolani errori commessi dal gruppo di rapitori, nel corso  dell’azione, come le numerose impronte digitali, rinvenute all’interno dell’auto abbandonata dopo il sequestro, o addirittura gli indumenti di alcuni dei componenti, dimenticati dentro il bagagliaio.

Poche volte ho visto il Capo incazzato come quella volta e tutto sommato fui ben contento che ad averci a che fare direttamente, fossero i suoi commissari e non noi modesti ispettori. Naturalmente le indagini proseguirono, ma sebbene i portavoce della questura cercassero di farci apparire sui giornali come impegnati a seguire piste promettenti, in una fase che poteva diventare risolutiva da un momento all’altro, in realtà brancolavamo nel buio più assoluto.

Fortunatamente, dopo qualche giorno, il giovane rapito fu liberato, quindi l’attenzione dei media si spostò sulla notizia del momento e i giornalisti  furono intenti a cogliere ogni più piccolo dettaglio del sequestro, da dare in pasto ai lettori.”

Mi sollevai dal divano malvolentieri e socchiusi la finestra, con la speranza che lo sventolio di Perasso cessasse, mi versai ancora un goccio di whisky e il capitano mi chiese:” E’ possibile che non vi foste resi conto della situazione che andava creandosi? Eppure se non mi ricordo male ho letto che proprio in quel periodo c’era stato un convegno del Collettivo Politico metropolitano, che si era costituito a Milano pochi mesi prima”.

Assentii con un sorriso amaro, quell’uomo che spesso si celava dietro atteggiamenti grossolani e sopra le righe, serbava una sottigliezza ed una perspicacia, che lasciava intravedere di rado.

“Hai colto nel segno. Non che siano stati sottovalutati i segnali, il fatto è che si era cercato di allontanare, di rimuovere dalla mente e questo atteggiamento ha permesso alla rete eversiva di costituirsi tranquillamente. Così, quando ci sono stati i primi casini, noi, soprattutto noi subalterni, non eravamo preparati a far fronte alla situazione, ma questo naturalmente non solamente per Genova”.

Per qualche attimo rimanemmo in silenzio, la pendola nell’ingresso cadenzava il tempo e fuori dalla finestra le ombre della precoce sera invernale si allungavano come oscuri tentacoli.

Mi accesi un’altra sigaretta, indifferente allo sguardo di disapprovazione del solito Perasso.

“La parabola criminale della 22 ottobre ha inizio proprio con questo sequestro, chiaramente diretto al sostentamento, ma ci sono state altre azioni condotte con metodo di guerriglia, per manifestare con violenza il loro  dissenso. Mi vengono in mente l’attentato esplosivo del 18 febbraio ‘71, nei confronti di una raffineria di Arquata Scrivia, pochi giorni prima un altro attentato, a Sestri Ponente, in un magazzino della Ignis da cui divampò un incendio di proporzioni gigantesche. Le due azioni furono rivendicate attraverso radio gap. Ricordate? Mediante un trasmettitore, che rinvenimmo successivamente in via Piacenza, erano riusciti, per ben otto volte, ad interferire con le trasmissioni del telegiornale regionale delle 20, arrivando sui televisori di gran parte delle case della Valbisagno ed inneggiando alla Resistenza e alla lotta antifascista”.

“Da quanti uomini era composta la 22 ottobre? Eh….  Quanti ne avete arrestato?”, domandò Perasso.

“Belìn, lascialo finire di raccontare, tu sei di quelli che iniziano a leggere i libri dal fondo e così rovinano la storia anche agli altri!”, berciò irosamente il Capitano.

Ne scaturì la consueta zuffa ed alzando gli occhi al soffitto, mi resi conto di quanto avrebbe avuto bisogno di una ritinteggiata, perché pareva diventato di un nauseante color pidocchio.

Ripresi con voce stentorea a parlare, nel tentativo di sedare il tumulto e con mio stupore parve funzionare.

“La parabola della 22 ottobre si concluse con un episodio che accadde il 26 marzo del 1971. Due uomini tentarono una rapina ai danni dell’Istituto case popolari, un commesso, Alessandro Floris, che trasportava la borsa con il denaro, provò ad inseguire i due ma fu ucciso dai colpi di pistola sparati da uno dei due malviventi. E’ chiaro come la scelta di rapinare un istituto che per eccellenza personificava gli interessi del mondo proletario, si rivelò un errore valutativo assolutamente grossolano, che fu ulteriormente accresciuto dalla morte di un giovane, oltretutto di umili origini, ammazzato nel compimento del proprio dovere. Gli ultimi  istanti della vita di Floris e i due terroristi in fuga, furono immortalati da un fotoamatore, che casualmente stava armeggiando con la sua macchina fotografica dalla finestra di un palazzo vicino alla scena del delitto, foto che finirono sulle prime pagine di tutti i giornali.

 A pochi istanti dai fatti, la squadra operativa diramava un comunicato radio a tutte le pattuglie, con la descrizione dei due rapinatori e dopo qualche ora i due furono riconosciuti ed arrestati da due agenti in Piazza Matteotti”.

Mi alzai nuovamente. Dalla finestra socchiusa ora entrava un’aria gelida, diedi un’occhiata nella piazza nella quale l’ombra si andava addensando, chiusi la finestra e tornai a sedermi sul divano.

“Nel momento in cui arrestammo Mario Corti in flagranza di reato, riuscimmo anche a trovare le risposte a molti quesiti che ci avevano tormentato durante tutto quel tempo. Durante le perquisizioni nelle case degli arrestati, trovammo una parte dei soldi del riscatto del sequestro dell’ottobre precedente, oltre a volantini e alcuni indumenti utilizzati per diverse azioni.

Mi rammento che in casa di Corti c’era la moglie con la figlioletta, era assolutamente all’oscuro dei coinvolgimenti del marito, ma questi sono aspetti meno noti e pubblici del nostro lavoro e non per questo meno dolorosi. Comunque, in breve arrestammo tutti i membri della cellula, una quindicina di uomini. Un dato mi colpì particolarmente, l’eterogeneità dei suoi appartenenti. Vi erano soggetti che, per i trascorsi ed i precedenti giudiziari, ne facevano parte per mero spirito utilitaristico, attratti solo dalla possibile ripartizione dei proventi delle azioni criminali”.

     Il capitano si versò ancora un poco di whisky e Perasso ripose il fazzoletto in una tasca, poi soggiunse pensoso: “beh, mi immaginavo che sentire la storia da uno che la ha vissuta direttamente, promettesse qualche rivelazione, di quelle che la stampa non ha mai saputo eh invece…”.

“Già, ti capisco. stiamo parlando di fatti sui quali si è scritto e detto molto, è difficile che nascondano rivelazioni sorprendenti. Io ho cercato di raccontare come ho vissuto quegli  avvenimenti e come si sono svolti, parlando anche di particolari nascosti ai più”, provai così a spiegare, ma anche alle mie orecchie quel chiarimento aveva i toni di una scusa.

Intervenne il capitano: “oggi abbiamo letto la notizia che un ex terrorista è stato messo in semi-libertà. Il racconto del commissario ci ha riportato a quei tempi, non dimenticare è utile e oltretutto mi sono passato il pomeriggio”.

Sorrisi a quelle parole.

“Vedi, Perasso, potrei dirti ancora molto, ma niente che non sia già stato scritto su qualche libro. Vuoi sapere che la 22 ottobre era collegata con le brigate rosse milanesi? Che il nucleo principale era di gente del quartiere di Molassana? Tutto arcinoto.”

Smisi di parlare colto da uno strano senso di amarezza. Ero stato riluttante a iniziare a raccontare di quelle vicende, ma una volta cominciato avrei voluto esprimere non solo dati e annotazioni, ma soprattutto le sensazioni e l’atmosfera che si respirava in quei giorni. Avrei voluto dire di come Genova fosse stata una delle città dove fu più evidente il contrasto al fenomeno terroristico e di come la cittadinanza collaborò attivamente con noi, di come il sacrificio di persone come Guido Rossa, fosse stato il simbolo della resistenza genovese e soprattutto spiegare l’opposizione della gran parte del movimento operaio, che altrove era stato una vera e propria fucina delle organizzazioni terroristiche.

Avrei voluto dire semplicemente ed esprimere, giungere all’essenza della comunicazione, ma ancora una volta non ci ero riuscito. Mi venne in mente una poesia letta qualche giorno prima, in un verso diceva: “E quello che vorrei dirti di più bello non te l'ho ancora detto”. Malauguratamente per me non detto, coincideva a mai detto ed espresso e questo suscitava tutti i miei sensi di colpa.

Ci salutammo sulla porta, Perasso disse: “ ci vediamo più tardi per mangiare un boccone?”.

“No grazie, questa sera ho un impegno”, mentiii con rincrescimento.

Anche il Comandante disse di aver da fare e ci salutammo dandoci appuntamento per l’indomani al solito bar.

Rimasto solo mi diressi in dispensa, accesi la luce e volsi la mia attenzione verso uno scaffale colmo di libri e di classificatori. Ne presi uno a colpo sicuro e spenta la luce ritornai in salotto.

Mi sedetti nuovamente sul divano e lo aprii tenendolo in grembo. I fogli all’interno erano ingialliti con gli anni, presi una foto che ritraeva un giovane con i capelli bruni e la faccia da bambino spaventato. Vittorio Mainetti mi aveva guardato allo stesso modo il giorno che lo avevo arrestato con l’accusa di far parte della 22 ottobre. Mi aveva guardato allo stesso modo molti anni dopo, quando ero entrato, appena vedovo, nell’Osteria del Corvo che gestiva con la moglie Aurora.

Ci eravamo fissati a lungo e, dopo qualche esitazione ci eravamo riconosciuti con meraviglia. Credo che avesse apprezzato il fatto che dopo qualche giorno da quando ci eravamo incontrati di nuovo, si era trovato nella cassetta della posta una busta anonima, che conteneva una copia della foto  che tenevo in mano in quel momento. Dietro avevo scritto: “Questo giovane appartiene ad un passato che non mi riguarda più. Questa è l’unica copia della foto che posseggo”.

Avevo mentito, le foto erano due. Non ho mai pensato, neppure lontanamente, di mostrarla a qualcuno, e se anche questa volta è stata forte la tentazione di far vedere l’incartamento, a dei cari amici, però non ho mancato alla parola data.

Solo, anche quella foto, è parte di un fascicolo che contiene molti ricordi inerenti a quei giorni, un fascicolo che mi è stato dato da un uomo d’acciaio e dai capelli di fuoco ed io come ho già detto ho l’insopprimibile vezzo di conservare ciò che mi è caro, esattamente come i libri.