La  mia scuola era piccola ed  era situata vicino al nuovo palazzo del Comune, un edificio in puro stile anni ’60, colorato di uno squillante azzurro mare, con una vasca decorativa nel cortile antistante,  che un giorno non lontano doveva essere stata piena di pesci rossi ma che  quasi subito  divenne  un deposito di cartacce e mozziconi di sigaretta. L’Istituto scolastico era costituito da due palazzine, quella con il portone d’ingresso, dava su un viale trafficato, l’altra era  addossata alla sede comunale; in mezzo  ai due edifici c’era una sorta di cortile ghiaioso, che rappresentava  sia la via di fuga delle scappatelle tra un’ora e l’altra delle lezioni per fumare una sigaretta, sia il fondale per le fotografie di fine anno e soprattutto era “l’aula magna” per le assemblee d’istituto. “Assemblea d’Istituto” era  un concetto del tutto nuovo nella mia scuola, così come lo era  per  tutte le migliaia e migliaia di scuole italiane.

Erano i primi anni ’70, e  quella la mia scuola superiore:” l’Istituto Tecnico Commerciale Leonardo Da Vinci”, una piccola scuola che da poco tempo si era distaccata dalla sede centrale nel capoluogo di provincia ed era diventata autonoma. Infatti, le iscrizioni erano aumentate costantemente, perchè da qui venivano sfornati  ogni anno decine e decine di Ragionieri per le fabbrichette della costa.

Intanto il “sessantotto” come  una ventata potente  si era abbattuto sull’intero paese, sulle fabbriche, sulle scuole, nelle università, le aveva scoperchiate, era entrato dentro, sotto e sopra, e nonostante la mia scuola si trovasse alla periferia del mondo, l’uragano era arrivato anche lì.

Un giorno, dal dire al fare, io avevo potuto indossare i pantaloni!

Vi domanderete che c’entra tutto questo con il sessantotto: c’entra, c’entra... Il fatto era che prima di quest’epoca, nella mia scuola noi ragazze eravamo obbligate ad indossare durante le lezioni uno sciapito grembiule color celeste polvere che sembrava quello delle commesse della Coop, e  sotto potevamo vestire solo ed esclusivamente gonne, rigorosamente lunghe  almeno fino al ginocchio!

In poche parole, quando andavamo a scuola, io e le mie compagne ci vestivamo da scuola, come tante piccole operaie pronte ad entrare in fabbrica e poi al suono della campanella che ci buttava letteralmente fuori dai cancelli, gli scialbi grembiuli venivano tolti immediatamente e nel farlo eravamo più veloci delle spogliarelliste con i loro slip.

Era l’epoca dei jeans in tutte le salse, a tutte l’ore, stretti sulle cosce e scampanati, sfrangiati, con la vita bassa, oppure i vecchi Rifle dalla stoffa blu scura e ruvida, ma comunque sempre jeans per ragazzi e per ragazze, ma mai a scuola!

Un giorno invece arrivò una circolare del preside, che venne letta in ogni classe, che dava il permesso a tutte le ragazze che lo volessero di indossare anche indumenti che non fossero le solite gonne, sempre che ci si attenesse a dei canoni di decoro e sobrietà.

Da quel momento ho indossato i pantaloni tutti i giorni, fino all’ultimo giorno di scuola. Solo per gli esami di maturità ci ho rinunciato ed ho acquistato per l’occasione un abitino color grigio a fiori rossi, che arrivava appena sopra il ginocchio.

Le assemblee d’istituto si susseguivano, una dietro l’altra, sembrava che si volesse recuperare il tempo perso fino ad allora. Ognuno aveva da dire qualcosa, a volte erano cose molto ingenue, ma l’importante era dirle in pubblico, in mezzo a tutti gli altri, poi, piano, piano ci si prese gusto e allora furono scioperi per qualsiasi causa, per la palestra che non c’era, per i professori che cambiavano in continuazione, per le aule fatiscenti, perfino per il sei politico!

Tutto questo succedeva dappertutto in Italia, anzi in tutta Europa, anzi in tutto il mondo, e anche molto, ma  molto di più !

Ci fu il momento in cui, però, la nostra voglia di stare insieme, l’ allegria nuova, le  parole più grandi  di noi, la  voglia di vivere, di cantare, di sapere,di volare, di colpo s’infransero, precipitarono con rumore sordo sul selciato di una strada.

Immagini di una grande città, durante una manifestazione di studenti, una corsa fra la folla che corre, la polizia con gli elmetti da guerra, il fumo dei lacrimogeni, le urla, i sassi, i manganelli, le camionette che corrono in su e in giù, il fiato sempre più corto e poi all’improvviso qualcuno che cade…

Un ragazzo con una borsa a tracolla, forse inciampa, e allora rotola e rotola sul marciapiede, sembra non fermarsi più, è riverso con la faccia all’ingiù, i capelli lunghi e neri gli coprono una parte del bel volto. Perché non si rialza? Non si rialza, rimane lì, immobile, fermo nella bellezza dei suoi vent’anni, nella crudeltà di un foro piccolo che nemmeno si vede, non si rialza più, resterà lì per sempre!

Ma allora si muore! Si può davvero morire ora, noi così belli e giovani? Noi con i capelli biondi e neri che svolazzano al vento, con i nostri occhi grandi sempre spalancati sul mondo? Noi eravamo immortali, ce l’avevano detto no?! A noi non poteva succedere niente, noi ci volevamo bene, noi avevamo i nostri maestri, le nostre fedi, le passioni, le filosofie!

Invece eccolo lì sul quel marciapiede, lui è rimasto lì, non ha  avuto mai trent’anni, né quaranta, non è andato ad accompagnare il suo bambino il primo giorno di scuola, è rimasto lì per sempre, da solo, con i suoi attimi vissuti ormai gelati sul volto, è rimasto per quelli che lo amavano veramente e che gli sono sopravvissuti a stento!

Così, allora, la storia è questa, ci domandammo in coro. Non era solo puro divertimento o nuove conoscenze, viaggi in autostop, e falò sulla spiaggia e libri letti con foga; fu come quando la mattina ti svegli dopo una bella sbornia, ti fa male la testa, vedi annebbiato, quasi non riconosci dove sei e hai la bocca amara.

Fu proprio così. Per tutti noi.

Le Assemblee d’Istituto nella nostra innocente Aula Magna all’aria aperta non ci bastarono più.

 

C’erano gli scioperi degli operai e gli operai erano i nostri padri, che  perdevano il posto di lavoro. Ristrutturazione, cassa integrazione, riduzione di personale, queste erano le parole d’ordine dei padroni delle fabbriche!

 

Anche vicino alla nostra scuola, fuori dal paese, laggiù nella piana con vista mare, c’era una fabbrica in rivolta.

Così un giorno si partì per partecipare  alla manifestazione: “ Studenti- Operai - Uniti nella lotta!”

Quella mattina quasi nessuno entrò nel portone dell’Istituto, tutti alla stazione, dove c’era il concentramento del corteo.

Quanta gente! Non l’avevo mai vista così tanta nelle vie dritte  e ordinate della città: c’era il consiglio di fabbrica, gli operai con gli elmetti gialli, i tamburi fatti con i bidoni, gli striscioni, i fischietti, i campanacci, le bandiere  rosse!

Gli operai erano differenti da noi, indossavano la tuta, avevano le barbe lunghe, l’espressione dei volti dura, gli occhi un po’ cerchiati di gente abituata a dormire poco e  a svegliarsi  a notte fonda.

Urlavano, gli operai. Si vede che erano abituati ad urlare sempre, perché le macchine sui cantieri facevano un rumore assordante. Erano differenti da noi: “noi  gli studenti”! Eravamo venuti  con gli stessi pullman, dall’entroterra giù nella cittadina industriale e marinara, ma noi eravamo colorati, con le sciarpe, i cappelli, le borse  fatte all’uncinetto, gli eskimo, le gonnellone rigorosamente a fiori. Ragazze  e ragazzi con i capelli lunghi!

Quel giorno però eravamo lì, insieme, anche se un po’ separati, indietro, in fondo, anche con gli striscioni, le parole d’ordine gridate dentro ad un megafono, con le bandiere e poi i canti, canti a squarciagola.  La gente ci guardava dalle finestre, le massaie che andavano a fare la spesa si fermavano, ci osservavano e scuotevano la testa.

Qualcuno diceva: “ Andate a scuola bighelloni!”

Come si godeva di tutto ciò, anzi si rispondeva: “ Venite con noi, unitevi alla lotta” e poi  rivolti ai commercianti che se ne stavano sull’uscio delle botteghe: “ Chiudete, chiudete, lottiamo anche per  il vostro pane!”

Sì, quel giorno tutto diventava possibile, eravamo insieme agli operai, non ci avrebbero fermato, nessuno avrebbe potuto farlo!

Arrivati nel sottopassaggio della Stazione, sotto il cielo di cemento del tunnel, uno di noi, quello con la voce più potente,  senza bisogno di nessun megafono ruggì e le sue parole s’infransero sulla volta grigia e ritornarono sopra tutti noi: “Potereeeee….. Operaioooooo! E  tutti noi in coro a rispondergli: “ Il potere deve essere operaio. Il potere deve essere operaio!

Cammina, cammina,alla fine strascicando un po’ i piedi, con le gole arse e fiochi dal cantare e gridare a gran voce per tutto il tragitto, si arrivò davanti alla fabbrica.

Era la fabbrica di mio padre, era lì che ad ogni turno, con ogni tempo, estate e inverno,  lui entrava, insieme ad altre centinaia di operai per sparire laggiù, in fondo allo stradone asfaltato, dentro a quelle torri grigie vicino alle ciminiere.

Lui lavorava ai forni, ma sapevo quanto aspirasse a essere trasferito un giorno in sala quadri, da dove avrebbe diretto un impianto restando  seduto a guardare nei monitor con delle lucette che si spegnevano e si accendevano. Ma chissà quando sarebbe accaduto, con i tempi  incerti che correvano…

Io ero una studentessa, sarei stata la prima nella storia della mia famiglia a conseguire un diploma, a studiare un’altra lingua. Sarei stata capace di scrivere delle lettere, finalmente avrei capito le leggi di chi ci comandava e avrei detto la mia!

Intanto, in quel momento, non ero a scuola.

Ero davanti a quella fabbrica, insieme a centinaia di altri studenti come me, con gli operai di quello stabilimento che protestavano per mantenere il loro posto di lavoro.

Laggiù in fondo però era schierato un piccolo esercito di carabinieri e di polizia, con gli elmetti in testa. Stavano davanti a jeep, auto e pulmini, sembravano fronteggiarci, anche se si mantenevano ancora lontani. Qualcuno di loro, più alto di grado stava qualche passo più avanti degli altri; gli mancava solo una sciabola in mano e poi  sarebbe stato il capitano di quegli eserciti del ‘700, che si sfidavano nelle piane erbose per conquistare  territori per conto dei re.

Non avevo mai visto tanti armati come quel giorno. Dietro a quegli elmetti non si vedevano i loro occhi, ma solo quei gusci metallici,  che ricoprivano le teste e che luccicavano al sole del primo pomeriggio!

Era l’inizio del secondo turno, davanti ai cancelli gli operai si erano schierati come in un cordone armato, stretti  nelle loro tute blu. Non volevano far passare nessuno, tutti uniti fuori dalla fabbrica, lo sciopero doveva essere totale, per dimostrare al padrone che gli operai erano solidali!

Ma ecco arrivare delle auto, erano impiegati, dirigenti che volevano passare ad ogni costo, le auto sgommavano rabbiose, cercavano di forzare il cordone degli operai, quasi andando loro addosso che si videro e costringendoli a staccarsi gli uni dagli altri e addossarsi ai lati dei cancelli.

Allora, ecco tutti gli altri pararsi vicino alle auto, e tirare manciate di monetine sopra ai cofani, verso i finestrini rigorosamente chiusi, qualcuno dava pedate sulle fiancate delle macchine, altri sputavano, tutti gridavano con tutta la rabbia che avevano in corpo: “Crumiri, crumiri, pagliacci, servi dei padroni!”

Fu come se il maestro concertatore  avesse dato il la, anche  noi che eravamo rimasti un po’ defilati, si dette il via alle nostre giovani voci e si fece il contro canto: “Crumiri, crumiri, servi, bastardi!”  e così via andare!

A questo punto i poliziotti, battendo forte gli stivali sul selciato, iniziarono un lento avvicinamento.

All’improvviso ecco uscire dal  nostro gruppo Rossana, ma che fa? È impazzita? Ma dove va?, Si mette quasi al centro del piazzale come se fosse in mezzo ad un palcoscenico, di là la polizia, di qua gli operai, e noi.

Lei è alta, con un cespuglio di capelli neri in testa, la faccia olivastra ed è parecchio incinta, il suo loden verde a stento le sta chiuso sulla pancia gonfia. Rossana ha in mano un megafono e così davanti a tutti, sola in mezzo al piazzale, attacca a gridare con quanto più fiato ha  e la sua voce amplificata e quasi remota echeggia in mezzo a tutti noi, davanti ai poliziotti che sembrano indietreggiare per un attimo, davanti ai sindacalisti che sorpresi si guardano gli uni con gli altri. Chi è quella matta?.

Rossana grida forte: “Operai! Siamo con la vostra lotta! Operai siamo i vostri figli! Saremo con voi! Padroni bastardi, ladroni! Affamatori! Studenti, operai uniti nella lotta!”

Fu un momento lunghissimo, un buco nero spazio temporale, in cui poteva accadere di tutto, poi Rossana come esausta si voltò verso di noi.

Solo allora si rese conto forse di dov’era, e quasi inconsapevolmente si mise una mano sulla pancia; in quel momento partì un applauso dalla nostra parte, un battimani sempre più forte e cadenzato e piano, piano si estese anche dalla parte degli operai, trasformandosi quasi nella voce di una cascata che si riversava su quel piazzale, e  scrosciava verso i poliziotti che se ne stavano immobili, in posa, come dentro ad una fotografia.

E dopo l’applauso a scena aperta, fu di nuovo un gridare di tutto, verso tutti e verso il cielo e poi canti, canti antichi, canti di ribellione e stornelli e filastrocche!

La manifestazione prese i toni usuali, con i sindacalisti che salirono sul cassone di un camioncino a mo’ di palco, insieme agli operai del Consiglio di fabbrica che tenevano in mano le bandiere. Fu il discorso, a noi anche un po’ incomprensibile, ma alcune parole le capivamo bene: “ lavoro, diritti,  sfruttamento, giustizia, libertà”.

Gli operai applaudivano insieme agli studenti, mentre i militari  ora si limitavano a controllare la situazione, arroccati nella loro posizione.

 All’improvviso fu come se mi risvegliassi da un lungo sonno, come se fossi stata tutto quel tempo in un’altra dimensione, rividi  gli amici, i compagni di scuola, mi sentivo sola e nello stesso tempo immersa in una folla indistinta che si muoveva convulsamente.

 Fu in quel momento che intravidi  in mezzo a quell’onda blu che era di fronte a me, mio padre.

Era in mezzo ai suoi compagni, sembrava un altro con l’elmetto in testa e la tuta blu un po’ stinta, aveva in bocca una sigaretta, e parlava animosamente con un suo compagno. Non mi vide,  anzi io ebbi timore che mi vedesse, che cosa mi avrebbe detto? Insomma ebbi pudore di chiamarlo e di andare verso di lui. Magari dopo, a casa, gliel’avrei detto che quel giorno eravamo dalla stessa parte davanti alla fabbrica!

Intanto il sole scendeva piano, piano, ma quella interminabile giornata non era ancora finita.

Bé adesso che si fa? Mica si può riprendere il pullman e tornare a casa così presto dopo tutto quello che è successo oggi!

Ci si guardò gli uni con gli altri, avevamo ancora voglia di stare insieme, di parlare, di farci le confidenze e poi era una così bella giornata, il sole tiepido di primavera, in quelle giornate già lunghe, che preannunciavano un’altra estate calda e piena.

Via… andiamo al  mare! Qualcuno la buttò lì…

Ma non si tradivano un po’ quegli operai che rimanevano lì a difendere la loro fabbrica?

Loro restavano lì a fumare  sigarette, a bestemmiare e a smanettare verso i cancelli ormai chiusi della fabbrica.

Fra poco sarebbe entrato l’ultimo turno, lo sciopero era finito!

 

I problemi non erano stati  risolti, ma loro oggi  erano rimasti  tutti insieme, là fuori a presidiare la fabbrica e a gridare  tutta la loro protesta. 

L’indomani la lotta sarebbe  stata ancora più dura, gomito a gomito, tutto il giorno con i capi e capetti che gliel’avrebbero  fatta scontare.

E noi? La decisione era presa. Prima di ritornare a casa si andava al mare, a smaltire quella sbornia!

Eravamo io, Giancarlo, Maurizio, Stefano e Claudio; ci mettemmo pazienti al bordo della strada, qualcuno più avanti, qualcuno più indietro, a fare l’autostop e dopo un  bel po’di tempo, eccoci  finalmente di nuovo tutti riuniti sulla spiaggia dei “Tre Pini”.

Che bellezza! Il sole primaverile, grande e rosso  stava quasi tramontando, l’aria era mite, leggere nuvolette rosate dietro all’isola dalla forma scura e morbida velavano l’orizzonte.  Tutto intorno  si udiva lo stridere leggero degli uccellini che,  raggruppati sui grandi ombrelli dei pini marittimi, si preparavano alla notte.

Non so perché,  ma ci mettemmo a correre, a correre a perdifiato.

Maurizio gridò: ”Chi arriva ultimo laggiù alla baracchina verde è un crumiro!”

Io avevo alti stivali beige e la gonna lunga e facevo fatica ad avanzare sulla rena alta, ma correvo lo stesso, a più non posso, con il fiato in gola, e gli altri con me, e nello stesso tempo si rideva e ci si prendeva in giro l’uno con l’altro.

La baracchina era sempre più vicina…..

Ecco, Giancarlo era già  arrivato alla meta, toccò la parete di legno come quando da piccini si giocava a rimpiattino e  alla fine si dava il “libero tutti”. Poi arrivarono  gli altri, con il fiato grosso e alla fine arrivai io, la più imbranata di tutti, ma insomma con quegli stivali! Tutti gli altri sghignazzando con il dito puntato verso di me, urlarono: “Crumira… Crumira!!!”

Precipitammo quindi sulla sabbia, come naufraghi che hanno appena toccato la riva di   un’isola e poi ci buttammo uno sopra l’altro, ancora a  fare capriole, a spintonarci, a scivolare lungo la duna, e di nuovo a correre e prendersi per la giacca e  a buttarci un’ altra volta per terra e a ridere, ridere con le lacrime agli occhi.

Alla fine del gioco, esausti, ci sedemmo sui bordi della duna, l’ uno vicino all’altro,  in silenzio, gli occhi in alto verso il cielo a seguire la striscia rosa di un aeroplano, il sole stava dando l’ultimo guizzo dietro la montagna dell’isola, allora io sussurrai ai miei compagni: “Ehi, forse stasera, se siamo fortunati, riusciamo a vedere il raggio verde!”