Mentre Redacted di De Palma sembra ancora di là dall’essere distribuito (ma ci si sta dando da fare per buttarci sopra un’occhiata così da poterlo recensire…), arriva sugli schermi, stavolta in tempi quanto mai rapidi dopo essere stato in concorso alla 65ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, The Hurt Locker (la cassetta dei dolori, quella dove vanno a finire gli effetti personali dei soldati uccisi in battaglia…).

La lunga pausa che ha fatto seguito a K-19: The Widowmaker non ha nuociuto neanche un po’ a Kathryn Bigelow, che sforna un film stravalido non fosse altro perché in mezzo a tanta paccottiglia offre un punto di vista assai preciso su cosa deve intendersi con il termine “guerra” (in Iraq, a scanso d’equivoci…). Basterebbe questo per mettere The Hurt Locker, rispetto al primo terzetto del genere “war-movie” che viene alla mente composto da Orizzonti di Gloria, Apocalypse Now, Full Metal Jacket, solo un po’ più in là sulla destra

“La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari” (Clémenceau senza vedere Orizzonti di Gloria). La guerra è un incubo senza fine, per di più ad occhi aperti (Apocalypse Now). La guerra è controllo, perdita del controllo, geometria applicata (Full Metal Jacket).

Per la Bigelow, in perfetta sintonia con la citazione del Pulitzer Mark Boal, giornalista del NYT nonché autore della sceneggiatura, la guerra è anzitutto una droga e in quanto tale produce assuefazione in chi la fa (in chi la assume...).

Nel suo aspetto visibile questa droga si compone (e in quanto tale è scomponibile…), in una serie di azioni tese per lo più a proteggere se stessi (il che implica che siano letali per altri…) azioni che messe una di seguito all’altra, danno come risultato dipendenza.

The Hurt Locker è quanto mai esplicito nel riconoscere un significato preciso alle azioni di una squadra EOD (Explosive Ordnance Disposal) applicata al disinnesco degli IED (Improvised Explosive Devices) ossia quei “dispositivi esplosivi improvvisati” divenuti tristemente famosi nel pantano iracheno (e non solo…), azioni riconducibili alla punta di diamante di tale squadra, ossia l’artificiere James (Jeremy Renner).

Ogni intervento di James è scandito da un rituale ben preciso (l’arrivo sul luogo dove è stato rinvenuto l’IED, la vestizione, la presa di contatto con l’ordigno, il disinnesco vero e proprio…), rituale al quale la Bigelow riserva una meticolosa attenzione resa attraverso un frastuono di immagini che lasciano il segno, vuoi per l’uso pressoché assoluto della macchina a mano che offre un quadro della situazione in perenne movimento, vuoi per il continuo cambiamento dei punti di vista dai quali l’evento si trova ad essere osservato.

Difficile ricordare un altro film così capace di scavare a fondo attorno ad una tipologia di gesti dal valore così alto (vita o morte). La Bigelow li tratta come è giusto che siano trattati, come gesti che in quanto decisivi per la sopravvivenza di chi li compie, non possono fare a meno di restare appiccicati addosso chiedendo incessantemente di essere riprodotti.

La Bigelow non parte dall’assuefazione per giungere ad una denuncia della follia della guerra; si limita a prendere atto dell’esistente attraverso un impianto visivo che poche volte è stato restituito con tanto verismo.

Chi si attende urla e strepiti contro il conflitto iracheno (fermo restando che la Bigelow a Venezia si è espressa più volte sulla necessità del ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq…) può anche astenersi e rivolgersi a Leoni per agnelli, Nella valle di Elah, oppure, quando sarà visibile, a Redacted.

Tutti gli altri vadano a vederlo, perché merita davvero…

Nove candidature all'Oscar e sei statuette: film, regia (la prima volta di una donna...), sceneggiatura originale, montaggio, suono, montaggio sonoro.