Roberto Faenza (Sostiene Pereira, Prendimi l’anima) racconta gli ultimi due anni di vita di padre Pino Puglisi, un prete ucciso dalla mafia perché, come diceva egli stesso, voleva far camminare le persone oneste "a testa alta". Padre Puglisi è morto per far avere alla gente del quartiere Brancaccio di Palermo cose come una rete fognaria, una scuola, un distretto sanitario.Assurdo. È morto per togliere dai tentacoli della "Piovra" i bambini e i giovani prima che diventassero disperata manovalanza al servizio di grassi sfruttatori. Ci stava riuscendo: aveva creato un centro d’accoglienza. Ma lo uccisero. Un "parrino", un semplice prete che rompeva le scatole. Inammissibile. Lo ammazzarono Alla luce del sole, attuando così un’estrema risposta all’invito (o sfida) di padre Puglisi di uscire allo scoperto. Erano i primi anni ’90: gli anni di Falcone e Borsellino, degli attentati di Roma, Firenze e Milano. Anni in cui la ferocia della mafia toccò picchi sanguinosi e in cui anche un prete poteva essere considerato "pericoloso". Dal punto di vista tecnico il film è ben fatto: Faenza è un regista navigato e Luca Zingaretti, senza strafare e con estrema umiltà, racconta il Brancaccio di padre Pino Puglisi mettendo da parte, per una volta, i panni di Montalbano. Con questa pellicola si torna a parlare di cinema impegnato, vengono tirati fuori i vari Damiani, Petri e Risi come termini di paragone. Il periodo storico nel quale operavano quei registi era diverso, decisamente più movimentato rispetto al periodo attuale, anni in cui abbondano le commedie demenziali di quarta categoria e le tragi-commedie generazionali in cui tutte le età sono in crisi: adolescenti, ventenni, trentenni, quarantenni e così via. Al di là delle polemiche, un film da vedere, per conoscere, ricordare, incazzarsi e magari, chissà, in qualche modo reagire.