Il titolo è sempre lo stesso, è quello che viene dopo a cambiare. 1982, Blade Runner e basta, con tutta la forza visionaria di una megalopoli, la Los Angeles del 2019, già globalizzata, climatizzata, surriscaldata. 1992: trascorsi dieci anni a Blade Runner si aggiunge Director’s Cut (condizione agognata da molti e concessa a pochi, pochissimi): fuori l’happy end solare-bucolico (ricavato nientemeno che dagli scarti di lavorazione di Shining…), via la voce narrante di Deckard/Harrison Ford, dentro il sogno sempre di Deckard con al centro l’unicorno, evento che riallacciandosi all’origami finale di Gaff, lascia aperta la porta al dubbio che Deckard altro non sia che un replicante egli stesso. 2007: di anni ne trascorrono quindici ed ecco il Final Cut (un’evoluzione del Director’s Cut che porta Blade Runner a essere là, nel punto esatto dove lo voleva Ridley Scott).

Vedemmo con questi occhi Blade Runner in una sala che ora non esiste più, in mezzo a una miriade di persone senza di primo acchito capirci molto perché la trama all’epoca ci apparve tutt’altro che chiara. Abbiamo letto e riletto il libro del grande, grandissimo P.K. Dick (Blade Runner film è assai diverso visto che del libro ha preso poco, pochissimo, solo quello che poteva funzionare sul grande schermo, la caccia ai “lavori in pelle”, quindi niente pecore vere al posto di pecore elettriche da far pascolare sul terrazzo condominiale, niente palta, nessun modulatore d’umore Penfield, soprattutto niente Merciarianesimo…). Vedemmo, sempre con questi occhi, il Director’s Cut con un pizzico di curiosità riguardo a quello che allora pareva già il prodotto finale voluto da Scott. Siamo tornati infine, ancora una volta con gli stessi occhi, a vedere pure il Final cut, sempre in sala, (mentre parallelamente il triplice DVD viaggia nelle videoteche…). Ci siamo tornati con venticinque anni di film in più sul groppone (e nel DNA), tutti più vecchi (venticinque anni, una vita…), magari più saggi (magari no…). Se siamo cambiati noi, pure Blade Runner non è più lo stesso visto il viaggio che ha fatto dentro e fuori le sale di montaggio d’allora e nella pancia dell’hard disk di qualche moviola digitale oggi. Insomma, chi siamo noi oggi, ma soprattutto chi è e che cosa è diventato Blade Runner ai nostri occhi che hanno visto solo è soltanto quello che un paio di occhi umani possono vedere? Difficile rispondere, e allora ce la caviamo per il rotto della cuffia specchiandoci nell’occhio dove si specchia la Los Angeles del 2019 (ma noi fra dieci anni ci sposteremo per aria con le 500, con le Punto, con le Mercedes, con le Renault? Sì, come no…). Esattamente come venticinque anni fa continuiamo a chiederci con terrore quando toccherà a noi essere sottoposti al test dell’empatia di Voight-Kampff, così come continuiamo a soffrire quando Deckard spara alle spalle di Zhora che fugge e che muore in un bailamme di specchi infranti. Ancora oggi continuiamo ad aspettare lo scambio di battute tra Roy Batty/Rutger Hauer e il suo creatore Tyrell, continuiamo a rabbrividire del parricidio che segue, continuiamo a contare i minuti che mancano al momento in cui Roy pronuncerà il suo immarcescibile monologo prima di spegnersi per sempre. Nell’attesa troviamo però anche il tempo e il modo (perché ormai siamo tutti multi-task…) per pensare meglio a ciò che vediamo. Allora ci viene da pensare che il fascino che Blade Runner ha esercitato per venticinque anni su larghe fette di pubblico, cinèfilo e non, è rimasto intatto. Lo ha fatto (rimanere intatto…), perché oggi come allora è rimasta immutata la bellezza lancinante dei suoi personaggi, tutti invariabilmente da annoverarsi tra la schiera degli androidi, bellezze crudeli (“Ho fatto cose per le quali il Dio della biomeccanica non mi farebbe entrare in Paradiso” dice Roy…) che costituiscono il nocciolo duro di Blade Runner ed è per questo che è uno di quei film che rimarrà. Il loro essere così simili eppure così diversi dai loro rispettivi umani, le loro attese, il loro soffrire, infine la loro rassegnazione, è una di quelle rare miscele che a distanza di tanto tempo riescono ancora a fare breccia nell’anima. Ancor più chiaro è come Blade Runner sia riuscito a fondere tra loro sia l’estetica della fantascienza sia quella del noir (o viceversa…), dando così vita a una nuova e intensa stagione che abbiamo imparato a conoscere come neo-noir. Siamo infine ancor più consapevoli di come il film funzioni “nonostante”, in un certo senso, la regia molto “piatta” di Ridley Scott, colui che all’epoca ci appariva come un dio del cinema (veniva pur sempre da Alien…) e di cui oggi possiamo dire, senza che nessuno si offenda, che non è riuscito a mantenere quanto promesso. Già, perché mentre la storia diventava pane per i denti degli spettatori di allora e per quelli del futuro, ci accorgiamo anche, nel cercare di venire a capo della “faccenda registica”, di come il buon Ridley si sia limitato a piazzare passivamente il suo Deckart, il suo Roy, la sua Zhora, il suo Tyrrel, la sua Rachael, la sua Pris, all’interno di mirabolanti scenografie solo per congelarli in un altissimo numero di primi piani (ma forse è così che andava fatto…).

Addio Blade Runner The Final Cut, addio amico prezioso di venticinque anni di sale cinematografiche, che ti sia lieve il DVD…