Ho tre figli di diversa età, adesso anche un nipotino, una moglie e i genitori anziani. Le mie paure sono legate alle loro persone. Se stanno bene loro, va tutto bene. Ma so quanto l’impermanenza caratterizzi la nostra vita. Il fratello di mia moglie, nel lontano 1976, è uscito di casa in motocicletta, cinquecento metri dopo ha impattato contro un auto, ed è morto poco dopo all’ospedale. Aveva 22 anni. La vita di un mio caro amico, Gaetano De Leo, criminologo, docente di psicologia giuridica a La Sapienza a Roma, al quale ero legato dall’infanzia, e che credevo indistruttibile, è stata stroncata improvvisamente da un infarto... E’ questa impossibilità di dire “domani” che suscita le mie paure. Anche riguardo a me stesso, ovviamente. E mi piace credere, per scaramanzia, che questa paura abbia una preziosa funzione di difesa.

Con il cibo ho un rapporto molto complicato. Ci sono alimenti che il mio cervello rifiuta: tutti gli insaccati e gli stagionati, i sottaceti e i sottoli. In pratica tutto il cibo conservato. Basta che un solo pezzo di questi si trovi nel mio piatto, anche quello preferito, perché non mangi più. Io penso che ciò sia dovuto al fatto che all’età di nove mesi mia madre, malata di tisi, fu costretta a lasciarmi per essere ricoverata in un sanatorio, dove restò per oltre un anno. Quel distacco traumatico in così tenera età, mi fa pretendere ancora oggi piatti caldi, preparati appositamente, come se mia madre fosse accanto a me. Il piatto freddo, il cibo insaccato, conservato, palesa invece la sua assenza. Per il resto, sono molto goloso, e il convivio è uno dei momenti più belli per stare insieme, meglio con le persone che ami e ti piacciono.

Alla cucina oggi provvede mia moglie che conosce profondamente i miei gusti, prevenendoli. Come una mamma. Non ho preferenza tra cibi dolci o salati, anche se i primi hanno qualche punto in più di gradimento. Non seguo una dieta particolare: di solito i miei pasti si dividono tra pasta, carne, meglio rossa, e pesce, quest’ultimo almeno due volte a settimana. Se mi trovo in un paese di mare, vivrei di solo pesce. In montagna cerco la cacciagione. Credo che il cibo sia essenzialmente cultura. A proposito: non potrei pasteggiare senza il vino a tavola, segno della cultura istriana nella quale sono cresciuto.   

Fin da ragazzo ho praticato sport, alle medie e superiori quello agonistico. Ero un buon velocista. Poi ho avuto la passione per i pesi. Avevo cominciato facendomi un bilanciere con un manico di scopa infilato in due barattoli di cemento armato. Poi ho frequentato palestre. Ero un fanatico della forma fisica. Mi sono un po’ lasciato andare dopo il matrimonio, ma arrivato a 36 anni ho ripreso l’attività sportiva, dedicandomi allo jogging. Oggi, a 60 anni, la prima cosa che faccio al mattino è mettermi la tuta, scarpe da walking, e fare un’ora di camminata veloce: in pratica da casa mia compio il giro del lago dell’Eur. Poi, pochi esercizi con i pesi, solo per tonificare i muscoli. Naturalmente mi sono comprato un bilanciere e un paio di manubri. Anche questi tutte le mattine. Segue, di prammatica, una bella doccia. Soltanto dopo ho la coscienza tranquilla per mettermi a scrivere. In casa sono vestito come se dovessi uscire: jeans e polo, o t-shirt blue marine, alla Armani. La stagione poi suggerisce se mettere una giacca sopra o un giubbotto. In passato sono stato dirigente d’azienda – ero responsabile delle attività editoriali di Telecom Italia – e vestivo solo abiti interi, blu o grigi, camicia, giocando molto sulle cravatte. Ne ho alcune belle, di Marinella. Ma ora non le uso praticamente più.   

Sono contento di vivere a Roma. E più contento ancora di vivere al quartiere Giuliano-Dalmata, a confine dell’EUR. Ci sono arrivato quando avevo solo 3 mesi, dal campo profughi giuliano-dalmati di Servigliano, nelle Marche, dove sono nato. In pratica non mi sono mai più, d’allora, spostato da questa zona. Solo che essa ha subito una trasformazione gigantesca da apparire un’altra. Nel 1948 qui c’era solo la campagna, le caserme della Cecchignola e i palazzi bianchi dell’E.42 il futuro Eur: il Palazzo dei Congressi, quello della Civiltà del Lavoro, dell’INA e gli altri di marmo candido ancora ben visibili.

A noi profughi assegnarono quelli che fino a quel momento erano stati i dormitori degli operai che costruivano l’E.42, poi chiamato Villaggio Giuliano-Dalmata. Lunghi corridoi, chiamati padiglioni, sui quali si affacciavano le porte delle singole famiglie. Eravamo duemila profughi. Ci ho vissuto dentro per una decina di anni. Per questo, seppur figlio unico, non ho mai sofferto di solitudine: uscivo dalla porta delle nostre quattro pareti e mi trovavo in un lungo corridoio con i miei amici. La zona ha cominciato trasformarsi con le olimpiadi del 1960. I padiglioni sono stati un po’ alla volta abbattuti e sostituiti con delle palazzine. Per me questo quartiere è il mio paese. Mi capita ancora di dire, quando mi reco al centro: vado a Roma, come si diceva una volta. E quando ci vado scopro una città meravigliosa, che non finisce mai di stupirmi. Guai chi mi tocca Roma. E la Roma, intendo la squadra.

Ma mi piace anche viaggiare, conoscere altri posti, anche se trascorro tutte le estati in Grecia, nell’isola di Kos, della quale è originaria la madre di mia moglie. Ci vado tutte le estati in macchina, perché il villaggio in cui viviamo si trova su un monte, a 9 chilometri dal mare: una vista che ogni volta t’illumina di immenso. Per il resto dell’anno, abitudinariamente, faccio alcune puntate a Fiume, la città di cui è originaria la mia famiglia e dove ho ancora parenti. Piccole ma frequenti tappe che servono a ritemprarmi l’anima, vedendo luoghi che hanno riempito le vacanze della mia adolescenza.    

Quando sono fuori non scrivo mai. Mi capita solo di prendere appunti su uno di quei mini book tascabili che mi porto sempre dietro. Scrivo nello studio che ho sempre avuto nella casa in cui vivo da quando mi sono sposato.Ho difeso – egoisticamente - questo spazio anche di fronte alla nascita di tre figli. E’ una bella cameretta foderata di libri, con scaffali che vanno dal pavimento al soffitto, la scrivania a elle, il lato più corto riservato al computer e quello più lungo alle correzioni a mano e alle carte, alle letture di ricerca, allo studio. Per la lettura distensiva mi servo del divanuccio poggiato contro una libreria. Ho precise scansioni di lavoro: al mattino (dopo la camminata e i pesi) scrivo i miei libri, subito dopo il pranzo leggo i giornali e i libri che devo recensire o intervistare gli autori per La gazzetta del mezzogiorno a cui collaboro, quindi letture di lavoro.

Nel tardo pomeriggio mi dedico alla stesura degli articoli, oppure vado a presentazioni di libri che mi interessano particolarmente. La sera la lettura è libera, rivolta a romanzi che in quel momento mi attraggono, ben disposto a lasciarli se li trovo deludenti. Il sabato e la domenica mi dedico esclusivamente ai classici. Ho appena finito Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, un libro che dovrebbe essere più conosciuto nelle scuole, ma di cui capisco la poca fortuna perché anticlericale e liberale, e Piccolo mondo antico di Fogazzaro. Adesso, sull’onda del film di Faenza, ho cominciato I vicerè di De Roberto. Sono letture che faccio per la prima volta, avendo in gioventù preferito sempre gli stranieri, tant’è che mi sono dedicato particolarmente a Stendhal, Flaubert,  Zola, Dickens, Dostoiewsky, Tolstoi… Erano, sono, letture da fare, certamente, ma accanto agli italiani, non meno bravi e interessanti.

 

Quando scrivo, è una jattura se capita che qualcosa si inceppa. Può capitare soprattutto con word, quel difetto che ha quando ti si presenta quella mascherina che ti dice “è stato commesso un errore, la macchina verrà chiusa" ecc. e ciò che si salva sono solo le cose fino a quel momento memorizzate. Se il blackout arriva dopo, perdi tutto. Una volta mi capitava così spesso da essere stato costretto a comprare un nuovo computer. Ma, anche se più di rado, capita ancora. E’ la volta che maledico la Microsoft, perché tutti i tecnici mi dicono che fa parte proprio del software. E perché non lo risolvono? Tanti mi consigliano di passare a Mac Intosh, più sicuro. Vedrò. Per tutti gli altri problemi di carattere informatico per fortuna ho mio figlio Carlo, di 14 anni, che ha un istinto naturale per le nuove tecnologie e che mi salva dalle arrabbiature.  

Scrivo per i giornali da quando a 14 anni ho visto una mia poesia pubblicata sul giornale dei profughi istriani Difesa adriatica. Poi, quasi subito, sono passato agli articoli, sempre per lo stesso giornale. Dagli articoli ai racconti. A 17 anni ho pubblicato il mio primo libro di poesie. A 19 il secondo e ultimo. Poi solo giornalismo e prosa. Sono tante le testate a cui ho collaborato, tra cui diversi quotidiani. Molti anni a Paese Sera, ma la stagione più lunga ormai è a La gazzetta del mezzogiorno, con ormai 16 anni di lavoro alle spalle. Anche per questo mi sono sentito onorato di fare un pezzo per i 120 anni di vita che il giornale ha festeggiato quest’anno con una edizione speciale. Scrivo di getto e non ho mai esitazioni, per cui non ho mai, neppure, sofferto della sindrome della pagina bianca. Può capitare di sentirmi insoddisfatto di qualche scritto, quando già mi trovo in una fase piuttosto avanzata, ma allora ricomincio senza mai perdermi d’animo e andando avanti finché dentro di me, pur con il lavoro in fieri, non mi sento soddisfatto. Mi capita invece di trovare errori quando vado a rileggere il testo una volta pubblicato. Allora mi chiedo sempre come possa essermi sfuggita una banalità del genere, e mi prende una piccola stizza. 

Tante volte ci sono delle scadenze da rispettare e, di solito, con questa prospettiva, ci si muove sempre all’ultimo momento. Ma ciò vale per gli articoli. Non per i libri, romanzi e racconti, che vengono pensati in tempo. Sono comunque un tipo costituzionalmente organizzato.

Questo mi ha permesso di non tralasciare mai la scrittura anche quando ero dirigente e dovevo gestire una ventina di collaboratori, diversi consulenti e fornitori. Stampavamo una decina circa di riviste di comunicazione interna e di marketing. E’ vero, era un lavoro sempre nell’ambito della scrittura, del giornalismo e della editoria, ma, come dire, per conto terzi. Ciò ugualmente riuscivo, organizzandomi, a trovare il tempo per scrivere i miei libri. Ciò spiega però anche perché le mie “uscite” in libreria non sono mai state troppo frequenti. Ma adesso spero di recuperare.

Quando scrivo ho solo bisogno di un sigarillo per cominciare. Lo accendo, il tempo che, col fumo, salga l’avvio e parto. L’importante, comunque, è trovarmi nel mio studio. Anche se in passato ho tranquillamente scritto in redazioni affollate, a Paese sera quando mi capitava o nel mio ufficio alla Telecom. Forse certe cose potevo scriverle solo lì, a casa nel mio studio no. Non lo so. Voglio solo dire che sono in grado di produrre testi anche fuori dal mio studio. Diciamo, però, che la letteratura, per me, abita solo qui.

Il fatto di essere figlio unico e di aver vissuto fino all’età di dieci anni in quei falansteri che erano i padiglioni del Villaggio Giuliano Dalmata mi ha dato una grande dote: quella di saper stare in compagnia degli altri, ma anche di riuscire a stare bene da solo. Ho amici che mi porto dietro da quella lontana infanzia, e altri acquisiti nel corso della vita. Mi piace stare in loro compagnia, meglio se conviviale, intorno a una tavola con del vino. Anche il lavoro di dirigente mi ha forgiato per il lavoro di squadra. Più recentemente, nel 2006, ho curato per Progetto Italia della Telecom, con Oscar Iarussi, caporedattore cultura e spettacoli di La gazzetta del mezzogiorno, la rassegna cinematografica Mezzogiorno di cinema al Petruzzelli di Bari. A parte la perfetta intesa con Oscar Iarussi, si trattava di lavorare insieme ad altre persone, con diverse competenze. E’ stata un’esperienza collettiva magnifica.  

Ci sono persone che sono in cima ai miei ricordi, quotidianamente. La mia nonna paterna innanzitutto, che ha avuto il difficile compito di allevarmi quando mia madre fu costretta al ricovero in sanatorio. Era una donna istriana di etnia croata che mi ha trasmesso forti valori morali. Ricordo spesso anche mia suocera, Despina, una donna greca di grande somiglianza comportamentale, forse per la comune cultura contadina, con mia nonna. Entrambe persone che hanno accettato il loro destino non facile con fatalismo, soffrendo (mia nonna ha perso il marito in guerra e 4 dei sette figli che aveva, tra i quali uno suicida, mia suocera ha perso due figli, la gemella di mia moglie all’età di due anni e il figlio all’età di 22), ma anche sapendo gioire delle buone e piccole cose della vita,  compreso un bicchiere di vino, se quel giorno era in tavola. E i nipoti che hanno accudito, mia nonna me, mia suocera le mie figlie maggiori: sono stati un dono che le ha ripagate con l’amore che i nipoti hanno saputo ricambiare e con il quale le ricordano..

Ho conosciuto anche i miei nonni materni che, dopo il passaggio della città alla ex jugoslavia, sono rimasti a Fiume, pur essendo – al contrario della nonna paterna – italiani, tanto da non saper neppure parlare il croato. Già ultracinquantenni all’epoca, non se la sono sentiti di fuggire illegalmente in Italia come hanno fatto gli allora miei giovani genitori.

E quando era possibile optare, se andare in Italia o restare in Jugoslavia, la loro richiesta è stata tra le 16 mila respinte dal governo jugoslavo per non mostrare l’onta di un regime dal quale tutti, anche molti croati, volevano andare via. Da una certa età, cioè da quando le relazioni bilaterali sono state risolte, ho sempre trascorso le mie vacanze scolastiche a casa loro. A contatto diretto con le mie radici, ho potuto assistere anno dopo anno allo sconvolgimento del terreno in cui erano radicate con l’arrivo di tanti jugoslavi dell’interno che via via hanno trasformato il tessuto etnico, linguistico e culturale della città. Il dramma degli esuli istriani e fiumani, per me che sono nato in campo profughi e vissuto nella stessa condizione per tutta l’infanzia e parte dell’adolescenza, è stata un’esperienza che mi ha formato sia come uomo che come scrittore. In me, figlio di una terra di frontiera, la frontiera la porto dentro. A Servigliano, ci divideva dal paese un muro alto, con il reticolato, ci sentivano diversi, ci sentivamo diversi. E così, quando dal campo profughi di Servigliano passammo ai padiglioni del Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma. I romani non capivano bene chi erano quelle duemila persone sistemate in quei dormitori, che parlavano quello strano dialetto. Da parte nostra sentivamo di essere diversi dai romani. Di essere altri. La frontiera, ancora. Insomma, la frontiera, per una questione di radici e di identità, me la porto dentro.

Mi fa paura la morte improvvisa, forse più che la malattia. L’interruzione di tutti i contatti con le persone che ami e con le cose da fare. Mi fa paura per gli altri e per me. Inoltre, della morte, per quel che mi riguarda, ho terrore di essere inchiavardato in una cassa e poi di avere uno strato di terra consistente sopra. Com’è il corpo da morto? Cosa percepisce della vita esterna? Siamo sicuri che c’è il nulla o che non sopravviva in noi, anche in quella condizione, qualcosa delle sensazioni corporali e intellettuali? Anche la cremazione non è una soluzione: arrivi tra le fiamme chiuso in bara senza possibilità di fuga.

Meglio le pire induiste: il tuo corpo nudo, all’aria aperta, le fiamme che ti trasformano in cenere per poi essere disperse nell’aria, una parte nel golfo del Quarnero, a Fiume, sulla spiaggia di baia del Re, una parte nell’Egeo sulle rive dell’isola di Kos.  

Nonostante questo terrore della morte, faccio sonni tranquilli. La mattina mi piace crogiolarmi nel letto, non mi alzo prima delle otto e solo perché me lo impongo: devo fare colazione (yogurt e caffè), la camminata e poi scrivere, leggere. Mi sveglio di notte solo se a scuotermi è un sogno che mi incuriosisce o se quanto sto scrivendo è tanto intenso da suscitare dentro di me scene, pagine, dialoghi che mi rendono insonne e che, comunque, mi affretto a scrivere sul mio taccuino. Ormai, di taccuini, ne ho tantissimi. Alcuni riportano anche molti sogni. Da giovane tenevo anche un diario, credo per un decennio e più. Qualche volta vado a rileggere qualche pagina. E’ una miniera, pieno di cose dimenticate.  

Si potrebbe vivere di scrittura. Con le collaborazioni ai giornali, le consulenze, meno con i libri. Si potrebbe, ma con grandi sacrifici. Io ho vissuto con una lavoro che mi piaceva: guadagnavo facendo giornali e riviste, dividendo la giornata con redattori, grafici, tipografi, distributori, conoscendo molte persone. E scrivendo per mestiere, anche se per conto terzi. Il ruolo che svolgevo era dirigenziale e perciò gratificato economicamente. Oggi usufruisco di una pensione che è il frutto di quel ruolo. Ed ho tutto il tempo per dedicarmi interamente alla scrittura, non più per conto terzi.  

Da cinque anni faccio la vita dello scrittore a tempo pieno. Un sogno accarezzato e perseguito tenacemente da quando a 17 anni ho pubblicato il mio primo libro. Anche il lavoro che ho fatto per vivere è figlio di questo sogno. Non avrei potuto fare l’impiegato, anche se è stato il mio primo lavoro. Ma dopo la pubblicazione del mio primo romanzo Massacro per un Presidente, edito da Mondadori, è cambiato tutto. Ho preso prima l’aspettativa, mia moglie consenziente e già con due figlie, poi ho trovato la strada della stampa aziendale. Altre prospettive erano l’ufficio stampa romano della Bompiani dopo il passaggio di Cristiana Zegretti alla Rizzoli, ancora non unite le due case nella RCS… Ho, pur tuttavia, nel frattempo, svolto attività free-lance di ufficio stampa per diverse realtà editoriali e artistiche. Per cui, come dire, ho sempre vissuto nell’ambiente. Devo ringraziare alcune persone, in particolare Antonio Barolini, uno scrittore e poeta oggi dimenticato, ma che per anni è stato il corrispondente dagli Stati Uniti di La Stampa, poi caporedattore di La Fiera Letteraria, una tra le più grandi riviste storiche di letteratura, quando direttore era Diego Fabbri.

Barolini credette in me non solo facendomi esordire sulla Fiera, ma anche poi segnalandomi, nella sua potenza del tempo, a direttori e giornali per le collaborazioni. Le altre persone a cui sono particolarmente grato sono Antonio Spinosa, che mi ha portato con se in tutti i giornali in cui è stato direttore, il Roma di Napoli, l’Agenzia Italia e La gazzetta del mezzogiorno, dove sono rimasto pur nell’avvicendamento dei direttori. Infine Stefano Terra, uno scrittore che ho molto amato per i suoi libri e che ho frequentato con assiduità negli ultimi anni della sua vita. Anche lui, come Barolini e Spinosa, oltre che scrittore, è stato giornalista, corrispondente per il Medio Oriente de La Stampa. Tutti padri di figlie femmine, mi piace credere che mi hanno voluto bene come a un figlio, il figlio maschio che non hanno avuto. Aiutandomi come un padre fa con i figli. Naturalmente, l’elenco di coloro ai quali devo essere grato non si ferma qui. Anche Gaetano De Leo, ad esempio, della cui morte improvvisa ho parlato più sopra, è una di quelle persone che generosamente mi hanno aperto alcune piste importanti per la mia carriera di scrittore.

 

Rimpianti? Nessuno, se non quello di non aver risolto un dubbio relativo al progetto di quale tipo di scrittore essere. Nel mio immaginario vivono due miti: quella dello scrittore serenamente commerciale che vive dei suoi libri sfornati in continuazione, come Eric Ambler, Desmond Bagley, Alistair Mac Lean, per fare nomi di scrittori che ho molto ammirato, e quella dello scrittore che persegue solo i comandamenti della sua voce interiore, come Elio Vittorini, Stefano Terra, Fulvio Tomizza, per fare i nomi di scrittori amati sul versante opposto e come i quali fare letteratura. A me resta difficile non seguire la mia voce interiore, tant’è che i temi dei miei libri, comunque, hanno ambiti che riguardano le mie radici e la mia storia famigliare, i miei luoghi e il mio vissuto. Ma mi piace pure il meccanismo dell’intrigo, dell’avventura,  del mistero, del viaggio come scoperta di un altro sé stesso. Mi trovo così in bilico, sulla frontiera, come sempre. Sul piano della mia immagine di scrittore, ciò mi ha posto su un terreno di ambiguità, che ripropone anche su questo versante i miei problemi di identità. Sono “giallista” o no? Lo sono sicuramente con Crociera di sangue, Operazione Venere, ma già in maniera più dubbia con Massacro per un presidente e L’uomo di Kos, non lo sono affatto con Una storia istriana e I confini dell’odio e quello che ho appena finito di scrivere. Mi consolo pensando a uno scrittore che su questa non identità ha costruito la sua identità: Graham Greene, autore di romanzi tout-court ma anche di quelli che lui definiva divertissement, inglese ma convertito al cattolicesimo romano, viaggiatore curioso ma spia per conto terzi, insomma anche lui diviso tra “genere” e letteratura. Un’ambiguità che gli è costata il Premio Nobel. A me molto meno.      

Non sono capace di far del male. Posso però provare sinceri sentimenti di indignazione.

Non so se questi siano sufficienti da soli a far sparire una persona. In questo caso sarei lieto di far sparire dalla scena politica, non certo dalla vita, un signore che continua a candidarsi alla presidenza del consiglio del nostro paese pur avendo un passato non proprio limpido con processi per corruzione di magistrati, falso in bilancio, evasione fiscale, collusioni mafiose e quant’altro, ed ha un sacco di soldi e potere da incidere, con stuoli di avvocati al seguito e politici venduti, sulle leggi che regolano, o dovrebbero regolare, il nostro paese per rendere la giustizia, come recita la costituzione, uguale per tutti.       

Beh, essere invisibile almeno una volta nella vita, per alcune ore, a chi non piacerebbe? Io poi sono un po’ voyeur, per cui ci metto sì il sesso ma anche la possibilità che avrei di carpire alcuni segreti. Come scrittore, mi sarebbe piaciuto a suo tempo entrare nell’Ufficio Affari Riservati del Viminale di Federico Amato dove si è scritta la storia italiana di questo dopoguerra.     

La lettura è in assoluto il mio passatempo preferito. Tante volte penso che mi manca il tempo per leggere tutti i libri che vorrei. Purtroppo, molto di questo tempo viene portato via dai libri da recensire o dei quali devo intervistare l’autore. E’ sempre, quella, una lettura coatta, perché doverosa. Tuttavia mi lascio momenti di libertà. Mi capita inoltre di giocare nei weekend a carte con alcuni amici: sempre a burraco. Partite che finiscono sempre, piacevolmente, a tavola. Poi, a parte le lunghe estati greche, ci sono sempre i viaggi, brevi, di non più tre, quattro giorni, una settimana al massimo, dopo di che non vedo l’ora di tornare a scrivere. Ma i viaggi sono molto stimolanti per la fantasia. Le mie storie quasi sempre nascono in viaggio. Tra l’altro in viaggio faccio sempre gli incontri più interessanti. Comunque, il viaggio per me è anche quello che faccio a Roma, quando mi capita di bighellonare per le vie di certi rioni del centro: ogni volta è una scoperta. Eppure a Roma vivo da circa sessant’anni. Insieme ai monumenti, ai palazzi, alla vitalità delle strade, mettici anche le donne.

Ce ne sono alcune davvero belle e vestite in modo da non poter disobbedire al suo ordine silenzioso: guardami! Purtroppo debbo fermarmi lì. 

Diego Zandel, 1948. Italia. Scrittore di origine fiumana. Nasce in uno dei campi profughi che ospitano gli esuli italiani in fuga dalla Yugoslavia di Tito. Questa origine avrà poi molta rilevanza nei suoi libri, sia di genere thriller che non, dove dimostrerà la sua profonda avversione per "ogni" nazionalismo e discriminazione. Tra i suoi romanzi, citiamo: Massacro per un presidente (1981) uno dei primi ad affrontare gli Anni di Piombo, Una storia istriana (1987), I confini dell'odio (2002), L'uomo di Kos (2004). Ha scritto anche un paio di avventure spionistiche per la collana Segretissimo: Crociera di sangue e Operazione Venere. (FN dal DizioNoir)

www.diegozandel.it