La trama conta, ma a contar di più in Il nascondiglio, la pellicola che segna il ritorno di Pupi Avati al genere thriller gotico (con qualche sfumatura horror ma non troppo…) dopo La casa dalle finestre che ridono e Zeder, è uno stratagemma già visto all’opera altre volte ma che ciò nonostante non smette di sorprendere. Si inizia con il favorire una profonda identificazione tra lo spettatore e la protagonista femminile (in questo caso) della storia che risponde al nome (pronome) di Lei, cui dà vita Laura Morante: il suo desiderio, quello cioè di risalire la china dopo un lungo periodo trascorso in una clinica psichiatrica aprendo un ristorante italiano in quel di Davenport utilizzando una vecchia casa abbandonata da molti anni chiamata Snakes Hall (teatro, cinquanta anni prima di un triplice delitto a opera di due adolescenti…), diventa ben presto il nostro, così come finisce col diventarlo anche il suo dolore per aver perduto il marito suicidatosi dopo accuse (infondate…) di pedofilia. Altrettanto nostro è il suo desiderio di scoprire a chi appartengono i rumori e le voci che provengono dai condotti d’aria delle casa. Le informazioni non mancano, e come già detto, l’identificazione stretta si fa strada rapidamente. Questa è la prima parte dello stratagemma. La seconda, quella più delicata, quella in fin dei conti responsabile non solo del finale ma di tutto l’impianto fin lì costruito, consiste nel ritiro improvviso di tutto ciò che fino allora si era speso a favore dell’identificazione. Il risultato è facile da prevedere: si resta nudi e crudi a decidere quale sia il senso ultimo di quanto visto fino a un momento prima, in altre parole ci si ritrova a dover riconsiderare tutta la storia da una prospettiva fin lì trascurata. Ovvio che tale applicazione finirà col soddisfare alcuni e non soddisfare altri: qualcuno, senza appello, inserirà il risultato nella categoria delle “bufale”, altri ancora lo accuseranno di essere un mezzuccio “studiato a tavolino”. Però, siamo certi, che una piccola minoranza lo apprezzerà ancora una volta come la migliore soluzione possibile quando si vuole sparigliare il mazzo e lasciare che ognuno tiri da sé le conclusioni del caso (c’è chi lo chiama “twist ending” e quando funziona lo è perché non va mai dimenticato sempre “c’è tutto un mondo che gira attorno”). Siamo certi però che su una cosa tutti si troveranno d’accordo, e cioè che Il nascondiglio rimane uno dei migliori esempi di come una regia elegante, sempre attenta a tutto ciò che è importante nella scena (attori, spazio in campo, fuoricampo…), può fare benissimo a meno di un budget elevato. Insomma, massimo risultato col minimo dei mezzi.