I giustizieri, di notte o di giorno, uomini o donne, non fanno piacere a nessuno (quasi a nessuno…). Va detto anche che solitamente i film con al centro tali figure finiscono col sollevare puntuali polemiche. I detrattori, la maggior parte quindi, sostengono che nessun privato cittadino può arrogarsi il diritto di farsi giustizia da sé, per quanto efferato sia il crimine che ha subito. Ciò detto, va notato che se ci si chiede quando le cronache si sono occupate di un giustiziere solitario in piena regola, la memoria fa cilecca (mentre con i serial killer è tutt’altra storia). Siccome il tema è d quelli troppo spinosi per essere affrontato all’interno di alcune riflessioni sparse su di un film, tanto vale passare alla seguente domanda: come si pone questo Il buio nell’anima (titolo “locale” più sballato del solito…) di Neil Jordan con Jodie Foster nei panni che furono a metà anni ‘70 di Charles Bronson (Il giustiziere della notte di Michael Winner è del 1974)? Con il film di Winner c’è la condivisione dell’assunto di base, quello cioè di una reazione violenta a una violenza subita in prima persona. Mentre Bronson si vedeva uccidere la moglie e violentare la figlia, Jodie Foster, nei panni di Erica, una giornalista radiofonica che con le sue trasmissioni tenta di restituire le atmosfere più impalpabili di New York, incappa in una banda di teppisti che le uccidono il fidanzato e la feriscono gravemente. Sempre alla stregua del suo predecessore Il buio nell’anima prima materializza un bisogno (quello di maggiore sicurezza?) per poi fornire una soluzione, per quanto parziale. Svariate sono le cose che non convincono: la metamorfosi della pacifica Erica in spietata giustiziera pare troppo repentina, mentre le vittime della “giustiziera” sono talmente caricaturali nella loro “programmatica tendenza a delinquere” che, spiace dirlo, a nessuno frega niente della fine che fanno. Sulla trasformazione di Erica da pacifica giornalista in implacabile giustiziera interviene pesantemente anche il fatto che la polizia è più che mai impotente (e in virtù di questa impotenza è anche pronta a schierarsi in un finale per certi versi shock…). Neil Jordan non firma un capolavoro, però dimostra di saper ancora “scrivere” alcune scene grazie soltanto ai movimenti di macchina.