Per quanto come titolo 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni del trentanovenne regista rumeno Cristian Mungiu si presti a qualche buffo equivoco tipo “due biglietti per 24 mesi, 8 settimane…”, non c’è nulla da ridere. Il film, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes 2007 (e del premio Fipresci), racconta con toni cupi la storia di due giovani amiche, Gabita (Laura Vasiliu) e Otilia (Anamaria Marinca) nella Romania del 1987 (unica indicazione temporale del film). Rimasta incinta, Gabita decide di abortire contando sull’aiuto di Otilia, decisione tutt’altro che semplice in un paese come la Romania che all’epoca proibiva rigorosamente l’interruzione di gravidanza. L’inizio in medias res confonde in parte la vicenda. Mentre appare chiaro che le due amiche si preparano a trascorrere qualche giorno fuori del pensionato per studenti universitari nel quale risiedono, il motivo alla base del viaggio rimane oscuro fino al primo all’incontro tra Otilia e il viscido sig. Babe (l’attore Vlad Ivanov, molto più viscido di quanto non fosse Giacomo Rizzo in L’amico di famiglia di Sorrentino…), “mammano” di pochi scrupoli che inizia così il suo lento avvicinamento alla preda Gabita che attende i due in una stanza d’albergo dove avverrà l’aborto. Sarà in quella stanza che Babe darà fondo a tutto il suo corollario di ammiccamenti e ricatti nei confronti delle due ragazze non solo per strappare il compenso più alto, visto che la gravidanza si colloca nel periodo indicato dal titolo il che rende più complicato l’intervento, ma anche per ottenere un compenso extra da parte delle due amiche di natura sessuale.

Se ogni Palma d’Oro fa storia a sé, a maggior ragione il discorso vale per 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni. Indubbio che il film abbia dei pregi: il primo è quello di saper scegliere un punto vista tra i tanti a disposizione per poi “blindarvi” lo spettatore, punto di vista che non è quello “atteso” (in un certo senso…) di Gabita ma quello “esterno” di Otilia, esterno ma non per questo distante perché ciò che vedremo fare ad Otilia in aiuto dell’amica sarà quanto di più vicino esiste a ciò che comunemente si intende per devozione (“laica” in questo caso).

Altro pregio del film è il rigetto di qualsiasi forma di impostazione della vicenda sotto forma di parabola discendente che attraverso una serie di successive degradazioni trascina i protagonisti sempre più a fondo. Piuttosto quello che si vede non è un lento scivolare della situazione, ma una vicenda che procede implacabilmente tra due punti già degradati di per sé. Ciò è ottenuto in primo luogo grazie ad una soppressione di tutto il superfluo, al punto che anche la deriva narrativa che vede Otilia “costretta” a recarsi alla cena di compleanno della madre del suo fidanzato, in realtà non fa altro che aumentare l’attesa su quando Otilia riuscirà a tornare da Gabita che l’attende in albergo. In secondo luogo Mungiu intuisce come sia più che sufficiente limitarsi a mostrare gli ambienti nei quali le due giovani sono costrette a muoversi, le relazioni che intrattengono con chi li circonda, il clima plumbeo che tutto avvolge, frutto di un regime dedito a soffocare ogni singolo cittadino e cittadino dopo cittadino un paese intero, tutti elementi dai quali emerge in abbondanza l’orrore di quei tempi, la fatica di vivere, le speranze ridotte a zero, lo squallore indicibile di una vita ridotta al lumicino, al punto che persino la scena più cruda del film, quella in cui la cinepresa passa con un movimento deciso (da alcuni descritto al contrario come “lento”…) dal volto di Otilia al pavimento del bagno dove giace abbandonato il feto seminascosto da un asciugamano, immagine shock che tanto scalpore ha suscitato a Cannes non appare neanche per un istante come gratuita (magari messa lì per far presa sulla giuria). Appare invece (al di là di qualsiasi considerazione morale sull’aborto) come il completamento più giusto a tanto squallore, squallore ripreso da Mungiu, in nome di un realismo più vero del vero, attraverso il ricorso massiccio al piano sequenza (il che ha consentito di montare il film in soli tre giorni), procedimento che dà vita di volta in volta ora a lunghe riprese “fisse”, ora ad altrettante lunghe riprese ma piene di movimenti e sobbalzi (nessun carrello, né steadycam). In entrambi i casi palpitanti e drammatici resoconti di un’umanità che tenta di andare avanti aggrappandosi all’unica regola possibile, quella di non guardarsi più indietro, costi quel che costi. “Sai cosa faremo?” dice Otilia a Gabita “…non parleremo mai più di questa storia”.