Lo abbiamo conosciuto con L'uomo di spalle, romanzo che ci aveva stupito per il sapiente patchwork di stili, registri e generi. Poteva essere un acuto isolato, una colpo andato a segno preterintenzionalmente. E invece no, Giacomo Cacciatore colpisce ancora con Figlio di Vetro, e fa centro.

Ma perché?

Il romanzo è scritto bene, stile asciutto e preciso, tiene incollato alla pagina. Ma non è questo. L'ambientazione (andiamo dagli anni '70 ai '90) è ben caratterizzata. Ma non basta. I personaggi sono tutti azzeccati. No, non è neanche questo. Di romanzi così, per fortuna (o per sfortuna) se ne trovano tanti.

Figlio di Vetro ci ricorda cos'è o cosa dovrebbe essere un romanzo, prima ancora di essere un prodotto editoriale: letteratura.

E quand'è che un'opera narrativa smette di essere soltanto "ben scritta" e diventa letteratura?

Ci vuole un timbro dell'Università X o l'approvazione ufficale di un critico di peso? Si fa domanda al comune di residenza? Oppure si corrompe qualcuno proprio lì, al posto giusto?

Niente di tutto questo: letteratura è, in questo caso, prospettiva narrativa, profondità di contenuti senza urla di propaganda o pretese saggistiche. Talento cristallino, puro artigianato, niente stampini e rulli compressori. E personalità.

Figlio di Vetro è il romanzo non del day after ma del day before "in progress": non è esattamente il passo prima del baratro, ma il piede che sta per tendersi sul vuoto. Ecco, è quella sensazione.

Prima che scoppiasse l'epidemia di narcosi televisiva e mentre dilagava la pandemia mafiosa. O ancora: "prima che sia troppo tardi", mentre tutto è già stato scritto.

Tensione drammatica.

Tutto culmina con la strage di Capaci. E si capisce, a questo punto, che non è solo un dato storico. Capaci è la fine di un mondo e l'anno zero allo stesso tempo. Per tutti.

(Fernando Fazzari)