"Il fucile" aveva detto tra sé. "M’interessa il fucile!" Chissà perché. Un fucile a retrocarica. Antonio Mulas ce l’aveva disteso sulla pancia, messo di traverso. Lui con la testa poggiata su di un sasso, come se lì, per terra, si fosse disteso per riposare.

Era vestito all’olieanese, con la camicia chiusa da due bottoni d’oro, sa berretta sotto il corpo, i pantaloni bianchi, corti al polpaccio, la giubba aperta e il cappotto a fianco. A tracolla portava un bel cannocchiale, ma a lui, al carabiniere Angelo Porta, interessava soltanto il fucile. Lo avrebbe conservato come una reliquia.

In quell’8 febbraio del 1899!

Si accosciò accanto al commilitone ferito: un paio di colpi al petto e un altro paio sulle braccia. Era ancora vivo e si lamentava.

Lui gli passò una mano dietro la nuca e provò a rincuorarlo.

- Stai tranquillo – gli diceva, - il brigadiere Bellani è sceso in paese per cercare un medico.

Un paio d’ore per andare e un paio per tornare. Non sarebbe mai arrivato in tempo.

- Lo abbiamo preso? – farfugliò il ferito.

- Sì – fece lui.

Il ferito parve sorridere.

- E l’altro? – chiese ancora.

L’altro era Giuseppe Pau, il bandito fuggito e che lo aveva colpito.

- Preso pure quello – mentì lui.

Il ferito tornò quieto e lui gli accompagnò il capo fin quando non l’appoggiò per terra. Poi ritrasse la mano.

La morte gli faceva orrore.

Alzandosi sospirò.

Era solo, adesso.

Tra quelle montagne che gli erano nemiche e sconosciute: s’era fatto carabiniere per sfuggire alla fame.

Qualche altro, per lo stesso motivo, s’era fatto bandito, come Antonio Mulas, che adesso giaceva un po’ più in là, faccia all’aria e gambe rinserrate, contro una roccia, come se qualcuno ce lo avesse tirato.

Tornò ad avvicinarglisi.

A guardarlo neppure sembrava sardo. Per quell’altezza e quella robustezza. Non c’era da meravigliarsi che fosse soprannominato "su bellu d’Oliana". Aveva la faccia forte, maschia. Doveva piacere molto alle donne. Ne provò invidia.

Piegò la testa per osservare più da vicino il fucile, ma non si azzardò a toccarlo. Canne lunghe, cani esterni, cesellato. Ma ad attirare la sua attenzione era soprattutto il calcio; e quello che c’era scritto …

In quel momento sentì un rumore che lo distolse.

Si girò di scatto e puntò il suo moschetto ’91 contro i rovi da cui i rumori erano provenuti.

- Chi è là? – gridò.

Teneva il fucile dritto puntato contro il cespuglio: non temeva che fosse di nuovo il Pau ché gli avrebbe già sparato. No. Non sapeva neppure lui cosa temesse.

- Chi è là? – ripeté. – Rispondete altrimenti sparo!

Il dito sul grilletto.

A rispondergli fu il grufolare di un cinghiale che adesso era uscito allo scoperto. Si fissarono per un momento, entrambi sorpresi. Poi l’animale si voltò e si ributtò nella macchia.

Lui tenne il fucile sollevato ancora per un po’, non del tutto persuaso che il cinghiale se ne fosse andato per davvero. Poi lo tirò giù, come un braccio stanco.

Non erano neppure passate un paio d’ore da quando c’era stato lo scontro a fuoco; ne sarebbero dovute passare almeno altrettante perché il brigadiere tornasse con i soccorsi.

Si strinse nella giacca. Faceva freddo, anche se fino a quel momento era come se non se ne fosse accorto.

Gli era venuta voglia di fumare; si frugò nelle tasche, ma non trovò né sigarette né tabacco. Si girò verso i cadaveri: per un momento gli era passato per la testa di frugare nei loro vestiti. Ebbe una specie di brivido. Non era la prima volta che aveva a che fare con dei cadaveri, ma ogni volta ne provava un orrore riverenziale.

Inghiottì a vuoto e si lisciò i capelli all’indietro, sollevando il berretto.

- Dio mio – pensò, - sarebbe come dare la mano alla morte. Invitarla!Era una specie di paura superstiziosa, quella sua, lo sapeva, ma non lo avrebbe mai confessato.

Era per questo che quando aveva compreso che il suo amico stava per esalare l’ultimo respiro, aveva ritratto la mano: lo aveva fatto prima che la morte potesse sorprenderlo in quel contatto. Gli era parso che la mano avrebbe potuto essere una specie di ponte gettato tra questo mondo e l’altro. Un ponte levatoio.

Si mise seduto su di una roccia.

Dio, che voglia di fumare!

Il vento era leggero e pungente; forse il profumo veniva dal mare, ma quelli che sentiva sapevano di terra: cisto, mirto e rosmarino.

Quando sarebbe rientrato in Continente se li sarebbe ricordati.

Quando sarebbe rientrato!

Ma lo avrebbe voluto davvero?

Respirò forte: forse non lo voleva più. Persino i suoi viaggi di rientro, negli ultimi tempi s’erano diradati, inconsapevolmente, voleva dimenticare di dove era venuto.

Era anche certo che un giorno se qualcuno gli avesse chiesto di che parti fosse, lui avrebbe risposto con sicurezza: Sardegna! – Sardo sono! – avrebbe detto.

Intanto, lassù, dov’era adesso, coglieva lo spazio che si stendeva ai suoi piedi.

Li vide salire incurvati, piegati dallo sforzo: a guidarli era il brigadiere Bellani, dietro un paio di uomini, leggermente distaccati un gruppo di persone.

Si tirò su e si rassettò la giacca; imbracciò il fucile, chissà perché gli era parso di dover assumere una posizione come di allerta.

Il brigadiere, quando si era allontanato, gli aveva raccomandato:

- Tu resta qui, di guardia. Noi scendiamo per chiedere aiuto.

E lui l’aveva salutato.

Di guardia a un morto e a un moribondo. Chi sarebbe potuto venire per portarli via, il Pau, forse?

Si passò un braccio sulla faccia: non gli uomini, aveva poi concluso, ma animali come il cinghiale di poco prima o le cornacchie che volteggiavano nel cielo.

Avrebbe dovuto fare da spaventapasseri, insomma.

Quando arrivarono, lui, calmo, disse:

- Il medico non serve più.

Poi guardò verso l’altro che veniva dietro il brigadiere.

- Il prete, invece, sì.

Per tutti quelli che venivano appresso non ci fu niente da fare: nessuno riuscì a respingerli. Ma neppure fu possibile strappare loro un riconoscimento ufficiale del Mulas. Nessuno si fece avanti, neppure dinanzi alla prospettiva della taglia.

- Ehh – aveva fatto uno, - diecimila lire farebbero comodo, eccome, egregio signor brigadiere. Ma potrebbero venir pure buone giuste giuste per una tomba in marmo pregiato – e s’era allontanato. Gli altri s’erano limitati a un sorriso. Di circostanza e cortesia.

- Abbiamo visto – disse un altro. – Ci basta.

Così, per il riconoscimento, si era dovuto ricorrere all’inserviente della caserma, che poi, qualche giorno dopo, fu trovato morto ammazzato e con i piedi amputati.

"Chissà perché i piedi!", si chiese Angelo Porta, senza riuscire a darsi una risposta.

Se lo chiedeva anche anni dopo, ogni volta che gli capitava di riguardare quel fucile che gli era riuscito di prendere e conservare.

Per tutti quegli anni l’aveva tenuto in una teca. Una specie di reliquia.

Una reliquia!

Dio santo, ci pensava su da un bel po’ di tempo, fino a convincersi che sarebbe stato un gesto significativo. Un bel gesto altamente significativo.

Col fucile di un brigante e con quel calcio, poi, con sopra incisa quella scritta!

Lui era in pensione già da un buon numero di anni, ed era abbastanza vecchio per poterlo fare. Nessuno lo avrebbe pianto. Né rimpianto.

Quel 21 dicembre del 1938!

Tirò giù il fucile dalla teca e una volta ancora ne controllò l’efficienza. Era oliato al punto giusto. Il meccanismo pronto e scattante. Lo caricò. Due soli colpi. Dietro non ne avrebbe portati altri: sapeva che non gli avrebbero concesso una seconda opportunità.

Sarebbe andato con il gruppo di camicie nere del paese, con lo stesso camion militare e per questo gli era venuto da sorridere.

Il fucile l’aveva incartato e quando arrivarono (una ventina di persone coordinate da un capo-manipolo) nessuno aveva badato al suo fagotto. Soltanto il capo-manipolo aveva osservato:

- Oh, Angelo, che porti, un regalo per il Duce?

- Un regalo che certo gli piacerà – aveva risposto lui e aveva riso, assieme all’altro che non aveva insistito oltre. Angelo Porta, dopotutto, era un ottimo fascista, di provata fedeltà e di antica data, per giunta, uno dei primi a mettersi sul bavero della giacchetta il distintivo del PNF. Che dubbi avere?

Angelo Porta salì sul camion allegramente. E durante il viaggio cantò e bevve assieme a tutti gli altri.

 Le strade erano quelle che erano e il camion ballonzolava, ma si andava per l’inaugurazione di Carbonia, il più giovane comune d’Italia, si poteva sopportare. Da un po’ di tempo non si parlava d’altro: la città dei minatori, dodicimila abitanti, ogni casa corredata di 500 mq di giardino (così che alle fatiche feriali e quotidiane si assommassero quelle festive e settimanali, ma era una considerazione che Angelo Porta aveva fatto a latere di altri pensieri).

Vollero passare prima per il porto di sant’ Antioco, anch’esso da poco inaugurato, dove sarebbe attraccato il regio incrociatore "Bolzano" con a bordo il Duce.

Sul porto campeggiava la scritta. "Duce, noi dormiamo con la testa sullo zaino", ad Angelo Porta aveva fatto tornare in mente la testa di Antonio Mulas poggiata contro un sasso.

Toccò il fucile, come per realizzarne, ancora, la consistenza.

Cantavano "Giovinezza".Poi il capo-manipolo disse che sarebbe stato meglio non aspettare oltre e di andare a Carbonia, altrimenti avrebbero corso il rischio di non trovare posti decenti.

- Sarà meglio andare – disse, - il Duce avremmo modo di vederlo quando si affaccerà dal balcone del municipio.

Anche là c’era un balcone che lo aspettava.Tornarono a salire sul camion, qualcuno era deluso e non lo nascondeva.

- Avremmo dovuto aspettarlo – diceva.

Angelo Porta, invece, era contento che fosse andata in quel modo.

Quello deluso aveva tentennato per un po’ la testa, poi s’era attaccato a un fiasco di vino e aveva presto affogata la sua delusione.

Angelo Porta l’aveva guardato con un’aria di commiserazione e quando gli era stato offerto il fiasco di vino s’era attaccato pure lui. Ma senza bere, in realtà, visto che per fare quello che aveva da fare sarebbe dovuto rimanere del tutto lucido.

- Non sei un gran bevitore – aveva osservato il capo-manipolo. E lui per un momento s’era sentito perduto: che scusa mettergli, che era astemio? Lo avrebbero deriso, o, peggio, li avrebbe messi in sospetto. L’altro aveva distrattamente poggiato una mano sul suo fagotto.

- Poi mi dirai che regalo è – aveva detto con aria decisa.

Ma poi era stato distratto dal fiasco di vino che gli era arrivato tra le mani e Angelo Porta s’era sentito sollevato.

Trasse più a sé il fagotto, con la speranza che l’argomento cadesse definitivamente.

L’aria era fresca, pungente e a differenza di quel lontano giorno … rimase come perplesso: quanti anni prima? Trentanove!

Dio santissimo, trentanove anni!

E questa volta l’odore del mare era forte.

Lo inspirò con avidità.

Era una specie di euforia quella che adesso provava, come quando si beve qualche bicchiere di troppo, neanche tanti, ma abbastanza perché prenda una leggera ubriacatura, tale da fare euforici senza però perdere il controllo di sé. Era per questo che aveva rifiutato dell’altro vino.

S’infilò una mano in tasca e tirò fuori un vecchio ritaglio di giornale. L’aveva conservato per tutti quegli anni perché all’epoca ci aveva creduto. Anche lui. Come tanti.

Sapeva di essere stato un esaltato; e adesso come allora, allo stesso modo. Non era cambiato. Ma le delusioni di un innamorato possono essere voraci, distruttive. Possono mangiarti dentro e consumarti come acido. O fuoco.

Strinse il ritaglio e cominciò ad appallottolarlo. Lentamente. Come se la mano fosse munita di dentatura e stesse masticando.

- Cos’è? – lo sorprese il capo-manipolo.

Lui sollevò lo sguardo.

- Niente – rispose. – Un vecchio ritaglio di giornale. Niente d’importante…

- Non può essere – lo interruppe l’altro, con un leggero tono divertito. - Se è vecchio e lo hai conservato, vuol dire che è importante - disse. - Dà qua – e allungò una mano. Ma non era stato un gesto imperioso, piuttosto quello di un amico che chiede a un altro amico di poter partecipare ai suoi segreti.

Angelo Ponte aveva rinserrato il pugno.

- Ah! Ah! – aveva fatto il capo-manipolo, ma ancora con quell’aria amichevole. Ci scherzava su. Probabilmente nemmeno avrebbe disdegnato l’abbozzo di una lotta: un piccolo atto di forza.

Angelo Ponte allargò il pugno e fece cadere nella mano tesa dell’altro il piccolo ritaglio di giornale.

Il capo-manipolo sembrò addirittura deluso per quella resa immediata. Sorrise guardandosi attorno.

- Un po’ di spazio, prego – disse nel mentre prendeva a dispiegare il pezzo di giornale sul pianale del camion.

I piedi si fecero di lato.

Era un articolo de "Il Popolo d’Italia".

E il capo-manipolo lo lesse a voce alta:

"Il Regime Fascista mantiene le sue promesse." Fece la faccia soddisfatta, come se fosse rimasto piacevolmente sorpreso di quanto leggeva. "La Sardegna liberata da un pericolo e da una vergogna con la uccisione del feroce brigante Stochino".

Alzò gli occhi.

- Embe’ – fece, - te ne vergognavi?

Lui si schermì.

- No … No … – provò a dire, ma pareva che la lingua gli si aggrovigliasse.

Il capo-manipolo gli batté dei colpi sulle spalle.

- E bravo, il nostro Angelo – scrollò la testa. – Fede da ammirare – esclamò. Poi si rivolse agli altri, come per un monito: – Adesso come allora il nostro Capo (aveva pronunciato la parola Capo con un’enfasi e un calore particolari) mantiene sempre ciò che promette.

Era contento. Molto contento. Soddisfatto. E non lo nascondeva.

- Bravo – ripeté con un altro colpettino sulle spalle. – Un buon fascista si vede anche da certe piccole cose come questa. – Gli si fece più vicino. – Ma mi dici perché volevi buttarlo via?

Angelo lo fissava.

- Eh? – insistette il capo-manipolo, come per risvegliarlo.

- Stochino fidi za mortu!

- Eh? – fece ancora l’altro, ma questa volta un poco infastidito: non sopportava che gli si rivolgesse in dialetto, specialmente in certe circostanze. Aveva capito che qualcosa non andava e aveva cambiato tono ed espressione.

- Stochino era già morto – ripeteva intanto Angelo Porta con una strana tranquillità.

Il capo-manipolo si tirò indietro: la storia la conosceva pure lui, quella ufficiale e quella ufficiosa.

- Che c’entra? – fece un poco irritato.

Angelo lo guardò con uno strano sguardo vacuo.

- Era una bugia!

- Bugia! Bugia! – saltò su il capo-manipolo. – A volte la verità può essere meno comoda. Per tutti. E poi – aggiunse, - chi non sapeva in Sardegna come effettivamente erano andate le cose … ?

- Era morto di polmonite - disse Angelo, con un tono smorto e con una faccia meravigliata.

- E allora? – fece a quel punto il capo-manipolo. Adesso era davvero arrabbiato. – E allora?

- Non tutti lo sapevano. Non tutti … Io per esempio … - riprese Angelo, - io allora ero in Continente … in Sardegna sono ritornato soltanto l’anno dopo … Io … io non lo sapevo …

L’altro lo aggredì.

- E allora? Tu non la sapevi, e allora? – Non gli piaceva più il tono di quello che fino a un momento prima aveva considerato un buon fascista.

- Era una bugia … - ripeté Angelo con tono dimesso, – e io ho continuato a credere alle … alle sue bugie … - pareva deluso. Era questo che lo angosciava: la delusione!

- Ma che bugie e bugie! – fece l’altro ormai fuori dai gangheri. – Fesserie! Ti rendi conto che stai dicendo un mucchio di fesserie? – Poi rivolgendosi a tutti, come a voler recuperare un certo tenore: - Un uomo va misurato per ciò che ha fatto, per quello che fa e per quello che farà! – La voce da tribuno, come se avesse dovuto salvare l’onore di quell’uomo. – Gli scopi sono al di sopra di tutto, pure della verità, se fosse necessario! – Poi si riprese, forse non troppo convinto di aver detto una cosa corretta, certo chiedendosi se quell’uomo sarebbe stato d’accordo con la sua uscita. – Che nascondi in quel pacco? – Strattonò via il fagotto e cominciò a strappare via la carta da imballo. – Voglio proprio vedere – diceva.

- Un regalo. Un semplice regalo – provò a opporsi lui. Ma debolmente. Troppo debolmente.

Quando lo scartò del tutto, il capo-manipolo rimase come stupefatto.

- Un fucile! – esclamò.

- Un vecchio fucile … - provò a protestare lui. – E’ appartenuto …

Ma l’altro non lo ascoltava e non gli diede modo di continuare: aveva gli occhi carichi di furore, come se un’improvvisa consapevolezza lo avesse travolto.

- Tu … Tu … Tu volevi ammazzare il Duce! – e gli era parsa tanto grossa quella verità che gli si rivelava da lasciarlo senza fiato. – Tu … Volevi ammazzare colui che ti ha tirato fuori dalla … dalla merda! – Non capiva, non gli riusciva di capire. Era sbigottito e tanta era la rabbia che gridava. Il fucile tra le mani. Si rivolse agli altri: - Voleva ammazzarlo, capite? – Si girò e voltò inavvertitamente le canne del fucile. - Vi rendete conto? - Forse non avrebbe voluto premere il grilletto. Forse. Ma partì un colpo. Una detonazione secca. A bruciapelo.

Angelo Ponte stramazzò colpito in pieno petto.

Nessuno reagì. Angelo Ponte non meritava né pietà né commiserazione. Soltanto una cert’aria stupefatta per una situazione che era diventata incresciosa.

Al Duce, fondatore dell’impero, il fucile non fu più donato, ma rimase proprietà del capo-manipolo che lo usò una sola volta, la mattina del 10 giugno 1940, subito dopo che Benito Mussolini finì di pronunciare la dichiarazione di guerra.

Si affacciò pure lui dal balcone del municipio e si mise a gridare forte il motto ch’era scritto sul calcio del fucile:

"Vincere o morire!". Lo gridò per ben due volte. "Vincere o morire!"

Poi tirò il grilletto …