Black book segna il ritorno, tra l’altro in due sensi, di Paul Verhoeven (ennesimo caso di un regista europeo emigrato ad Hollywood): al cinema (primo senso) e alla madre patria, l’Olanda (secondo senso). Verhoeven, autore tutt’altro che minore, tutt’altro che trascurabile, da qualche anno in silenzio (L’uomo senza ombra risale al 2000…) ma tutt’altro che spento. Superato il firewall che avvolge il film che presentato a Venezia 2006 è stato accolto tiepidamente, ci si ritrova di fronte ad uno spettacolo verhoeveniano sino in fondo, al punto che più di così non si potrebbe. Lo è per la capacità che Verhoeven ha sempre dimostrato di possedere, e che consiste nell’utilizzo a fini espressivi di due fattori niente affatto semplici da gestire e che per rifarsi al suo primo lavoro made in Hollywood (Flesh + blood, 1985) sono in primis, appunto, la carne e il sangue. Black book apparirà ad alcuni (a molti?), insopportabilmente revisionista, visto come procede ad un sistematico, anche se non esteso come può sembrare da quello che si legge in giro, rovesciamento dei ruoli tra persecutori (i nazisti) e perseguitati (gli ebrei), fornendo, anche qua con tutti i distinguo del caso, un ritratto della resistenza olandese non privo di zone oscure, zone dove è facile rintracciare motivazioni riconducibili a meschinità e avidità (il Black book del titolo si riferisce all’agenda, tra l’altro mai ritrovata, dell’avvocato De Boer, che collaborò con il comando tedesco all’Aia, agenda contenente la lista di insospettabili collaboratori dei nazisti che lavoravano tra le file della Resistenza olandese). Sul piano della storia Black book descrive le vicissitudini di Rachel, una ragazza ebrea che vistasi sterminata la famiglia dai nazisti decide di raggiungere i partigiani olandesi e di unirsi a loro. Conosciuto per caso Müntze, un ufficiale nazista, si presterà a diventarne amante pur di infiltrarsi tra le fila nemiche. Finita la guerra per Rachel i pericoli continueranno perché alcuni partigiani la ritengono, a torto, doppiogiochista e per questo cercheranno di eliminarla costringendola ad ulteriori vicissitudini fino allo smascheramento del vero colpevole. Ora a partire da tale materiale, Verhoeven compie scelte semplici è quanto mai redditizie: sul piano del racconto sceglie un incrocio molto vorticoso (ma anche molto attento a rispettare le regole del genere…) tra melodramma, spy-story, thriller, action-movie, mentre sul piano delle scelte estetiche, là dove qualsiasi regista interessato a lasciare una traccia duratura di sé è destinato a scendere per confrontarsi con chi lo ha preceduto, avanza come sua abitudine come un caterpillar. Se i risultati della prima linea di condotta portano il film a risultati di sicuro effetto, è sulla seconda che si giocano i destini del film. La scelta, scontata in un certo senso, è quella di seguire come uno stalker in piena forma i destini di flesh and blood (e anche della shit…). Se la carne, ad esempio, vive, crogiolandosi al sole, be’, Verhoeven sta là. Se la carne, diventa seducente eccitando altra carne, si può star certi che Verhoeven starà ancora là. Se sempre la carne inizierà a sobbalzare sotto l’impatto delle pallottole che la squarciano, Verhoeven non arretrerà di un passo e sempre là resterà. Se poi il sangue schizzerà in abbondanza, Verhoeven non batterà ciglio, e ancora una volta là starà. Se infine la carne sarà oramai cadavere (che si tratti di un vero cadavere o di un falso cadavere nell’attesa di diventarlo sul serio, be’, non fa poi molta differenza…), sempre là lo ritroveremo. Gusto del macabro come escamotage per ottenere il massimo effetto con il minimo sforzo solleticando il voyeurismo perverso dello spettatore, o all'opposto una ricerca ossessiva rivolta alla messa in evidenza di elementi spesso rimossi o relegati in film minori, splatter magari, con l’obiettivo di torcere fino alle estreme conseguenze i codici di rappresentabilità appunto di flesh and blood non all’interno di un B-movie ma in un prodotto mainstream (anche il nudo frontale maschile e la tintura dei peli pubici della protagonista ne fanno parte…)? La questione è aperta, e lo sarà per molto tempo ancora. Nel frattempo ci si può più che accontentare di un film molto forte che su scene forti si regge. Forte di scelte di regia che ad esempio piazzano, a conflitto finito, Rachel e un ex capo partigiano sulla riva di un lago immobili mentre un carro funebre fermo sul ciglio della strada alle loro spalle sussulta (il perché non può essere rivelato…). Forte di una storia che sa confondere bene le acque così da lasciare fino in fondo un alone di incertezza sul whodunit. Forte nel saper suscitare un’adesione totale alle vicende. Altrettanto forte di una serie di attori sconosciuti dal cui potenziale Verhoeven attinge a piene mani in particolare nel caso della protagonista, Carice van Houten, che nei panni di Rachel offre un’interpretazione estremamente sfaccettata e complessa, divisa com’è tra gioia, dolore, amore per il rischio, fortissima sensualità. Ma soprattutto, forte di un’idea di cinema come detonatore di emozioni profonde, che Verhoeven dimostra di saper padroneggiare benissimo, Hollywood o meno.