Eppure lo stereo della mia macchina, che per pigrizia o fatalismo lascio sempre aperta, nessuno si prende mai la briga di rubarmelo: piccoli miracoli della serena convivenza con chi si arrabatta, mangiando cibo indiano o cinese perché anche l’ultimo negozio di comuni generi alimentari è stato soppiantato dal minimarket del pollo tandoori.

Entro nel mio appartamento di settanta metri quadri, incasinato come la mia vita. Mentre tento di accendere una lampada di carta, inciampo sul tappeto kilim, pesto un paio di libri ancora incellofanati e arranco fino al lettore CD. Tolgo i Board of Canada, tentenno su Blue Zero one dei Taxi, scarto la compilation Hotel Costes di John Cutler e infilo nel lettore Sound Travel di Nathan Haines, imprecando in silenzio contro Mel che negli ultimi tempi mi propina solo del trip, chillout e jazz sperimentale. Il volume che proviene dalle casse non mi impedisce di sentire il suono del campanello. Mi avvicino alla porta e attraverso lo spioncino vedo la sagoma robusta di Giovanni Riva, in arte e per gli amici Johnny, il mio vicino di casa.

Nove mesi fa, l’appartamento di fronte al mio è stato affittato a un nuovo inquilino: un eccentrico signore sulla sessantina. Buongiorno e Buonasera è il massimo che ci siamo detti per un paio di settimane, fino alla sera in cui ha bussato alla mia porta con un gessato stile mafioso, un bouquet di rose bianche in una mano e una bottiglia di Barolo nell’altra.

Il suo nome mi diceva qualcosa, così gli ho chiesto di ripeterlo.

“Ha l’aria di un attore, lo sa?”

“Lo sono stato. Ma non credo che lei veda film del genere.”

Dopo averlo invitato a sedersi sul mio divano verde, tra una stecca di Camel e un gambaletto spaiato, e aver versato il Barolo in due bicchieri da Nutella, mi sono tornati alla mente un paio di film visti in videocassetta un secolo prima, a casa di un compagno di università.

“No! Lei è Johnny Riva?”

Ha allargato le braccia come chi viene scoperto. “In persona.”

Sono scoppiata a ridere. “Mi scusi, è che non capita tutti i giorni di…”

Ha concluso la frase per me. “Di avere per vicino di casa un ex attore di film porno?”

“Ex?”

“Be’, alla mia età…”

A quel punto abbiamo riso entrambi.

Da quella sera io e Johnny siamo diventati buoni amici e capita che alcune sere ceno da lui. Nonostante sia vegetariano, mi cucina fiorentine al sangue o bistecche di cavallo, le mie preferite, e finisce che ci scoliamo un paio di bottiglie di vino che lui stappa, versa e odora con fare esperto e cerimonioso.

La gente che ama bere si riconosce subito, ci sono segni, sguardi, gonfiori che ti fanno da specchio. Non ci sono punti deboli da nascondere né maschere di virtù da esibire, fai a meno dei fronzoli e arrivi all’osso di tutto. Johnny è ancora un bell’uomo, ha occhi celesti e capelli folti e neri. A quarant’anni deve avere avuto lo stesso fascino decadente di Alain Delon in L’Ultima notte di quiete, e una volta gliel’ho fatto notare. Mi ha risposto che film come quelli nessuno glieli aveva mai proposti.

Incontro dopo incontro, ora so di lui molte cose: ama leggere, andare a pesca, e vive solo perché Loredana è morta di edema polmonare quattro anni fa. “Non tutti muoiono a cent’anni come se dormissero”, mi ha detto parlandomi di lei. Nel suo sguardo ho visto la sequela di stanze d’ospedale, camici bianchi da rincorrere nella corsia per farsi dire la verità nuda e cruda, lo squillo della notte e la voce di un’infermiera:

“Sua moglie…”. “Non è mia moglie”. “Chiunque sia, è deceduta qualche minuto fa”.

Una volta sola mi ha accennato al suo ex lavoro.

“Sono entrato nel giro tramite un amico. Mai pensato di essere Laurence Olivier, però il mio corso di recitazione lo avevo fatto anch’io. Non avevo un soldo e le ragazze mi dicevano che a letto ci sapevo fare… Ho girato l’Europa, l’America, e conosciuto gente di ogni tipo. Delle cose del mondo, del ’68, di Freud o di Che Guevara non mi importava niente. Lui”, e ha indicato la patta dei pantaloni “mi pagava l’affitto, il whisky, i bei vestiti. Poi, un film dopo l’altro, finisce che arrivi sul set e non guardi in faccia nessuno. Cominci a desiderare una vita diversa. Ma tutti desiderano una vita diversa… Be’, stavo invecchiando. Non ero più il Johnny Riva a cui avevano dedicato copertine con le più famose pornostar degli anni ’70, ed ero stanco di stare lì, a gambe tese, col mal di schiena, sopra a tizie di cui non sapevo neanche il nome. Quando ho conosciuto Loredana, a quel punto, avevo solo voglia di fare l’amore con qualcuno”.

Adesso Johnny Riva è uno che si interessa del mondo, legge Chandler e Pedro J. Gutiérrez, ama i film western, i fiumi pieni di carpe e le parole crociate. Nella sua vita è sceso a patti con l’assurdo talmente tante volte da provare tenerezza per l’umanità intera. Non ha mai un’opinione sicura su niente, ma ispira sicurezza come nessuno.

Apro la porta e lo vedo sudare dentro un grembiule di plastica, con un mestolo di legno in mano.

“Passato di verdura”, mi dice col tono di un ristoratore che annuncia il piatto del giorno.

“Sei matto? Col caldo che fa?”

“Appunto, così sudiamo e smaltiamo qualche chilo. Non te lo vuoi mettere il due pezzi quando andrai in vacanza?”

“Sono tornata ieri dalla Tunisia”, gli ricordo, aprendo la porta di tre quarti per mostrargli la valigia che non ho ancora riposto nell’armadio.

“Oh, benissimo,” esclama lui “ti aspetto di là, così mi racconti.”

“Ho un nuovo caso! Festeggiamo! Porto il Cabernet?”

Ma Johnny si è già defilato.