E’ arrivato il momento di pagare le birre, lasciare una mancia al cameriere e trascinare ossa e valigia fino alla fermata dell’autobus. Una biondina in short di jeans mi chiede d’accendere; un’altra sta dicendo che al parco della Montagnola stasera danno uno spettacolo di cabaret. Ripenso alle estati passate con mia sorella ai concerti o ai recital degli attori e mi dico che quel tempo è finito.

Ada voleva fare l’attrice. Una sera rientrò a casa dopo essere stata al Palazzo dei Congressi a sentire Carmelo Bene recitare Manfred di Byron.

Sovreccitata e felice, si mise a declamarne un verso accompagnandolo con ampi gesti teatrali: Tremo e mi gela stranamente il sangue. Ma io so fare quel che più aborro. Mi alzo dal tavolo pensando che forse, prima di impiccarsi, è a queste parole che mia sorella ha pensato.

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Da quando Lucio Spasimo è andato a Sacramento dal fidanzato Josh, il suo studio è diventato il mio pensatoio preferito. Appoggio i piedi sulla scrivania di metallo, vicino alla tastiera del PC, e scrollo la cenere della Camel nella lattina di Bud che ho appena bevuto.

Prima di innamorarsi, Lucio passava giornate intere in questi pochi metri quadri senza finestre, con gli occhialini tondi a un centimetro dallo schermo, il mento rasato a chiazze, le guance da ragazzino sovralimentato, a occuparsi di programmi informatici, investigazioni per la sicurezza delle aziende e prevenzione anti-Hacking.

Ci passava anche parecchie notti qui, dormendo un paio d’ore su un divano più simile a una branda, avvolto in morbidi maglioni dai colori accesi e con ai piedi carte di merendine e bottigliette di Pepsi.Ecco cosa fa l’amore quando è corrisposto: fa prendere un aereo a uno che ha sempre avuto il terrore persino di salire su un autobus.

Uno che lascia me qui, a serrande abbassate, in una penombra silenziosa dove le scartoffie non reclamano urgenze, il telefono non squilla da giorni e io e mio padre – esile squadra investigativa di questa agenzia – ci salutiamo con un cenno del capo e un mugugno le rare volte che ci incrociamo.

Da due settimane l’ex maresciallo maggiore Fulvio Cantini si è concesso le ferie e si è trasferito nella casa in campagna di Jole, una coetanea conosciuta a un Bingo; l’unica cosa che mi auguro è che Jole riesca a disappannarlo dall’anice, cioè a farlo bere di meno.

Così, resto solo io a mandare avanti la baracca…

All’inizio, l’Agenzia Investigativa Cantini operava anche per conto di avvocati e di piccoli imprenditori, ma adesso ci occupiamo per lo più di casi di infedeltà, ricerche di persone scomparse, figli che marinano la scuola e finiscono in brutti ambienti, mariti che vogliono sapere se le mogli vanno come dicono al corso di ceramica o alle riunioni dell’Anonima Alcolisti, e mogli che vogliono sapere se i mariti vanno come dicono alla partita di calcetto o al giovedì del poker.

Mio padre di adulteri non ne vuole sapere, li passa a me perché dice che in queste cose lui è un sentimentale. Evidentemente, ha un’opinione poco romantica di me. Secondo Cantini, io ho il sangue freddo necessario per spezzare il cuore a gente che vuole sapere di che morte muore invece di restare prudentemente ai margini della verità.

Mio padre mi sopravvaluta. Vedere uomini e donne che mi vomitano addosso le loro pene d’amore non è una cosa che mi lascia indifferente. Oltre tutto, quando fotografo amanti che si scambiano effusioni davanti a un hotel di periferia o a un ristorante fuori mano, mi sento la spia che di lì a poco spiffererà al nemico i dettagli di una relazione clandestina, la preside moralista che passa la bacchetta al genitore/legittimo consorte per la punizione. E non è che questo ruolo mi piaccia granché.

Guardo le pareti spoglie dello studio di Lucio, le ragnatele agli angoli del soffitto; raccolgo da terra un post it giallo con la sua calligrafia, insieme a una pallina di polvere che ficco nel cestino di plastica. Strofino pollice e indice contro la tela dei jeans e penso che se adesso fosse qui gli racconterei la mia deprimente vacanza ad Hammamet, l’acqua lurida della piscina affollata di bambini, gli orgogliosi papà che ne immortalavano i tuffi con le videocamere, il sole africano che mi ha procurato un fastidioso eritema, Eros Ramazzotti a tutto volume dagli altoparlanti, un mogio e scheletrico cammello pronto per la foto di rito e infine i miei unici amici: due ragazzini bulimici che al buffet del ristorante si riempivano i piatti di ogni genere di schifezze, esattamente come me.Il trillo del campanello mi riporta alla realtà, obbligandomi ad alzarmi e ad aumentare il passo fino a raggiungere la porta d’ingresso.